Il PNE rilancia la ricerca mineraria: Pollino e Sila al centro della nuova mappa delle risorse
Con il Programma Nazionale di Esplorazione Mineraria, l’Italia rilancia una campagna di ricerca a trent’anni dall’ultima. Il piano, fondato su sostenibilità e innovazione, mira a ridurre la dipendenza estera valorizzando risorse e rifiuti minerari
MORMANNO - Con il Programma Nazionale di Esplorazione Mineraria (PNE), l’Italia torna a guardare al proprio sottosuolo come a una risorsa strategica per la transizione ecologica e digitale. Il piano, approvato dal Comitato Interministeriale per la Transizione Ecologica (CITE) e affidato all’ISPRA e al Servizio Geologico d’Italia, segna il ritorno di una politica mineraria nazionale a trent’anni dall’ultima campagna di ricerca.
Il PNE ha un duplice obiettivo: individuare nuove risorse minerarie e valorizzare i rifiuti estrattivi abbandonati, riducendo la dipendenza dell’Italia dai mercati esteri e dai rischi geopolitici. L’iniziativa si inserisce nel quadro del Regolamento europeo sulle Materie Prime Critiche, che considera strategici minerali come litio, rame, tungsteno, terre rare, grafite, bismuto e magnesio, indispensabili per batterie, microchip e tecnologie green.
Con un investimento iniziale di 3,5 milioni di euro, il PNE coinvolge 15 unità operative e oltre 400 specialisti. Le attività si concentreranno in 14 progetti di ricerca distribuiti su tutto il territorio nazionale — dalla Lombardia alla Calabria, passando per Sardegna, Piemonte, Toscana, Lazio e Campania — con l’aggiunta della mappatura dei rifiuti minerari finanziata dal PNRR URBES (10 milioni di euro).
Le indagini saranno non invasive, basate su rilievi geologici, geochimici e geofisici, analisi satellitari e telerilevamento. Tecnologie avanzate come la radiografia muonica e l’uso dell’intelligenza artificiale permetteranno di integrare i dati in un Database Minerario Nazionale (GeMMA), rendendo le informazioni accessibili e trasparenti a ricercatori, istituzioni e imprese.
La Calabria: una “sorella geologica” della Sardegna
Tra le regioni protagoniste figura anche la Calabria che ospita uno dei 14 progetti nazionali. Quello calabrese è dedicato alla ricerca sulla grafite nella Sila. Come spiega il geologo Mario Pileggi, del Consiglio Nazionale “Amici della Terra”, la regione «è ricca di estesi ammassi granitici nelle aree della Sila, delle Serre e dell’Aspromonte, originati insieme a quelli del blocco sardo-corso».
Sardegna e Calabria sono definite da Pileggi “sorelle geologiche”, nate dallo stesso orogene e separate circa dieci milioni di anni fa dall’apertura del Mar Tirreno. Questa parentela geologica spiega la presenza, in entrambe le regioni, di importanti mineralizzazioni a tungsteno, rame, molibdeno e grafite.
Secondo i dati del Censimento dei Siti Minerari Abbandonati (1870–2024), la Calabria conta 59 miniere censite: 28 a cielo aperto e 31 sotterranee. Tra i minerali estratti figurano zolfo, feldspato, caolino, mica, marna da cemento, manganese, lignite, pirite, barite, quarzo, grafite, molibdenite e cinabro.
La storia mineraria calabrese è antica e radicata. Dalle miniere d’argento di Longobucco e San Donato di Ninea, documentate sin dal XVII secolo, al polo siderurgico borbonico di Mongiana, la regione ha rappresentato per secoli un cuore pulsante della metallurgia italiana. Il ferro calabrese alimentò per decenni officine, fonderie e opifici che produssero utensili, armi e manufatti diffusi in tutto il Paese.
Il geologo Pileggi richiama anche le ricerche dell’ingegnere Cortese, responsabile del Corpo Reale delle Miniere d’Italia, che nel XIX secolo evidenziò l’eccezionale qualità dei minerali calabresi, paragonandoli per purezza a quelli dell’Alto Adige. Dalla grafite di Parghelia, utilizzata per le porcellane Ginori del Quirinale, alle miniere di rame dell’Aspromonte, la Calabria custodisce un’eredità geologica di valore nazionale.
Ricerche moderne e prospettive future
Le ricerche dell’ENI (RIMIM) degli anni ’80 hanno confermato l’esistenza di nuovi distretti minerari ad alto potenziale: Mormanno-Verbicaro-Sangineto (piombo, rame, tungsteno, bario); Catanzaro-Nocera-Amantea (mercurio, stagno, berillio, molibdeno); Stilo-Bivongi-Mammola e Aspromonte (ferro, arsenico, uranio, tormalina).
Per Pileggi, questi dati dimostrano che la Calabria può tornare a essere protagonista, non solo come terra di giacimenti, ma anche come laboratorio di innovazione sostenibile. «La ricerca geologica e mineraria – afferma – non rappresenta un ritorno al passato, ma una scelta strategica per il futuro. L’estrazione deve accompagnarsi a tecnologie pulite, recupero dei materiali e tutela delle risorse idriche».
Il PNE può trasformarsi in un volano di sviluppo per il Sud, con nuove opportunità di lavoro e ricerca. Le università e i centri scientifici calabresi potranno avere un ruolo centrale nell’elaborare modelli di economia circolare applicati al settore minerario.
Pileggi propone inoltre di valorizzare i siti minerari dismessi come parchi e musei geo-industriali, seguendo l’esempio virtuoso della rete REMI in Sardegna, integrando turismo, cultura e formazione tecnica. In questo modo, la Calabria potrebbe coniugare la riscoperta delle proprie “georisorse” con la rigenerazione del territorio e la riduzione della disoccupazione giovanile.
Il Programma Nazionale di Esplorazione Mineraria rappresenta dunque un’occasione storica per il Paese e per la Calabria: un ritorno consapevole alla terra, nel segno della scienza e della sostenibilità. Come ricorda il geologo Pileggi, «se inserita in una strategia condivisa, la Calabria può tornare a valorizzare le proprie risorse non solo come fonte di materie prime, ma come leva di cultura, sviluppo e innovazione».