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NUGAE - Di monti ventosi e scalate interiori

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Chissà come si sarà sentito Charlie Gaul quando  -era il Tour de France del 1958- lasciò solo i piedi a spingere ancora la sua bicicletta oltre il sofferto traguardo, mentre le braccia si alzavano al cielo, all’ombra di quella torre elevata per osservarlo il cielo, da quella cima calva del leggendario monte Ventoso!

Chissà se, mentre dai suoi muscoli si discioglieva l’acido lattico accumulato in una delle più leggendarie scalate montuose, avrà anche lui avuto una, apparentemente casuale, rivelazione che lo abbia restituito a se stesso, al di là della gloria del trionfo, in quel cammino di prova, fisica e psicologica, che per tanti suoi colleghi, dopo di allora, fu fatale.

Appena un anno prima, in uno dei suoi saggi, Roland Barthes lo aveva definito “un luogo adatto agli eroi”, “il più alto degli Inferni”, un monte terribile che “non accetta debolezze”, mentre sembra esigere un “tributo di sofferenza”.  

Lo stesso rilievo, il più vetusto delle Alpi, di cui il maestro di cultura e ciclismo, Paul Fornel, scrive, molto più di recente -2012-, che è “la più grande rivelazione di te stesso” , perché, metro dopo metro, fino alla vetta, “è te stesso che stai scalando.” Perciò”, conclude, “se non vuoi conoscerti, rimani a valle.”

Non so quanti luoghi vi siano che, più di questo, riassumono in sé letteratura e sport, spiritualità e agonismo, allegoria e consistenza materica similmente veritiere e rivelatrici.

Sebbene lontano dal diffuso e impacchettato immaginario della Provenza, eppure posto nel cuore di essa, ad un’altitudine di poco inferiore alla nostra vetta più alta della Sila, ma rispetto ad essa ben più arido, il tormentoso Monte in questione, come nome vuole, è battuto da venti così forti che nel 1967 soffiarono con una forza da record mondiale anch’essa. Sono questi che, schiaffeggiandone le pendici, ne inibiscono in buona parte la vegetazione, così da farlo assimilare ad una sorta di Luna in terra, piuttosto che, per le numerose voragini e rocce taglienti, ad una delle bocche di accesso all’Inferno.

Sebbene sia più che probabile che fosse già noto ai Romani, tuttavia il primo che ne lasciò una descrizione estremamente dettagliata, tale da farla segnalare come prima pagina letteraria legata all’alpinismo, fu Francesco Petrarca, in una lettera che, appunto, proprio per tutto quanto sopra, assimila in sé elementi fisici e spirituali, tali che, mentre racconta di una faticosa e faticata scalata, rende conto di un sé in estenuante ricerca di definizione, assetato di altezza, ma ad ogni svolta trattenuto da gravità e pigrizia.

È il 1336 quando Francesco, che per vicende biografiche fu legato alla Provenza, decide l’impresa,  “spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza […] chiamato giustamente Ventoso”. Un’avventura a costante dialogo con i classici, sin dalla sua stessa motivazione, accesa da un passo di Livio in cui il nostro, mal celando un emulo desiderio di grandezza, legge d’una impresa simile vissuta dal re macedone Filippo in altre regioni. Salire sulla vetta per guardare oltre, per affacciarsi su paesaggi inediti, per non aver altro sopra di sé, per sentirsi più grandi. O forse più piccoli?

A muovere i passi lungo questa faticosa scalata interiore, Francesco vorrà il fratello Gherardo con sé e, fuor d’ogni impaccio, non a caso, il volume de Le confessioni di Sant’Agostino, maestro sempre sorprendente e costante di scavo psicologico e scandaglio interiore. Ma, partiti insieme, i due non procedono d’uguale andatura: “io […] mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù […] speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte […] non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia”. In letteratura gli indicatori di spazio, di movimento, l’alto, il basso, la via dritta, piuttosto che il girovagare tortuoso, sono spesso metafora dei moti dell’animo. Un animo fragile, quello di Francesco, errabondo, stanco, che vede il bene, desidera slanciarsi verso l’alto, ma, per sentieri e vallette, attraverso “la strada più pianeggiante che passa per i bassi piaceri della terra”, ricade di frequente, si avvilisce, è deluso di sé, si rialza, ricade e si ferma, dissipando il tempo, inseguendo la volontà, tra quegli autoinganni e  disvelamenti coraggiosi che fanno di lui precursore non solo dell’Umanesimo, come storicamente fu, ma idealmente del Novecento, mentre si autoriconosce figlio spirituale del grande Agostino e dei grandi classici, da Virgilio ad Ovidio. E di quest’ultimo risuona l’eco in questo passo che,  cuore e bellezza intima della lettera tutta e della sua profonda umanità, ripropongo testualmente: “Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza”.

Mentre Francesco gioisce dei suoi piccoli progressi, piange per le sue imperfezioni e -nostro empatico compagno di strada- commisera “la comune instabilità delle azioni umane”, quasi dimentica il luogo e l’impresa; ma il sole si appressa a declinare, il crepuscolo spinge lo sguardo verso l’orizzonte davanti a lui, mentre le mani aprono (a caso?) il libro, a disvelare, con Agostino, il senso del tutto: non c’è altezza maggiore, non v’è impresa più ardua, ma meritevole d’attenzione, che curare il nostro sé.

Quel monte che è sembrato a Roland Barthes esigere un “tributo di sofferenza”, con Petrarca -e probabilmente non solo con lui- lo ha avuto; ma ha anche trasformato le debolezze in forza. 

Le prime luci di quella sera di fine aprile scendono sul Monte Ventoso. Nel necessario silenzio della contemplazione, Francesco si ritira e, a suggellare quell’aura di miracolosa rivelazione, “al chiarore della luna piena”, apre la pagina e scrive.

“Quante volte quel giorno – credilo – sulla via del ritorno ho volto indietro lo sguardo alla cima del monte! Eppure mi parve ben piccola altezza rispetto a quella del pensiero umano, se non viene affondata nel fango delle turpitudini terrene.”

Scrive all’amico Dionigi, Francesco; scrive a se stesso, Francesco. Scrive ad ognuno di noi. E il miracolo della letteratura si perpetua.

Alessandra Mazzei
Autore: Alessandra Mazzei

Diploma classico, laurea in Lettere classiche a La Sapienza, Master in Pedagogia, insegue una non facile conciliazione tra bios theoretikos e practikos, dimensione riflessiva e solitaria, e progettualità concreta e socialmente condivisa. Docente di Italiano e Latino, già Assessore alla Cultura e Turismo di Rossano, impegnata in diverse associazioni socio-culturali, ma, prima e più di ogni altra cosa, mamma, felice, di Chiara Stella, Gabriele e Sara Genise. Ha grande fiducia nelle capacità dei giovani, degli studenti, di quelli che poi restano e di quelli che vanno pensando un giorno di tornare. Spera di poter contribuire, insieme a loro e ad amici ottimisti, alla valorizzazione di questa terra di cui sente da sempre la forza delle radici, accanto al bisogno di paesaggi culturali ampi e aperti. Ama la scrittura, che vive, al pari dell’insegnamento, come itinerario di ricerca e crescita personale, da coltivare in forme individuali e collettive.