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Apologia del buffone

3 minuti di lettura

Più anni mi lascio alle spalle più sono incantata dalle persone che fanno del sorriso il linguaggio del loro viso; più ho bisogno di impararne l’arte; più cerco e scelgo persone con cui ridere. E le porto nel cuore.

Ma la smetti di ridere?

C’è poco da ridere! Sii serio!!

Risus abundat in ore stultorum!!!

Di quanta falsa pedagogia infarciamo le nostre vite e ingombriamo l’educazione dei  ragazzi?

Di quanti rimproveri simili a questi risuonano ancora oggi i templi accademici!

Ridere è un istinto primordiale, naturale degli uomini.

Nei piccolini conquista il cuore: evidenzia benessere, gioia di vivere e di ricevere l’altro e le sue attenzioni.

Poi, chissà perché, in Occidente interpretiamo la crescita come una progressiva acquisizione di serietà; ridere troppo viene ritenuto poco educato, addirittura sconveniente (specie per le fanciulle); dà fastidio, evidenzierebbe superficialità, dabbenaggine. Si entra nel mondo dei grandi conformando il volto alle espressioni più compunte, controllate, chiuse.

L’emisfero sinistro, quello logico e razionale, è sempre più sollecitato, premiato,  sviluppato. Si insegna ancora troppo spesso che c’è una sola cosa/modalità giusta e fuoriuscire dalla pista è disincentivato. L’ansia di sbagliare cresce socialmente con noi. Sic ridiamo via via sempre meno. Per forza!

I più apprezzati rafforzano la loro (apparente) autostima, imparano a prendere estremamente sul serio quello che fanno e diventano: una targa sulla porta, una giacca con cravatta e una macchina sono l’identità. La vita è una cosa seria!   

Dio mio la serietà! È la qualità di coloro che non ne hanno altre: è uno dei canoni di condotta, anzi, il primo canone, della piccola borghesia! Seri bisogna esserlo, non dirlo, e magari neanche sembrarlo!

Così Pasolini.  

Questa storia della seriosità scambiata per serietà, che diventa sinonimo di maturità, dell’essere adulto imbalsamato in una maschera che controlla emozioni ed espressioni, nell’ambiente lavorativo, sociale, e, per acquisizione, nella vita privata, è davvero da smontare, come tanti dei processi indotti che ci hanno portati a reprimere consistenti parti del nostro essere più autentico.

A chi non avesse avuto la fortuna di leggere La carriola di Pirandello, lo consiglio di cuore.

Abbiamo bisogno di prenderci meno sul serio!

Ma se invece di reprimerla, la adottassimo e insegnassimo l’arte del ridere?

Se invece di rimproverarlo, imparassimo a riconoscere la capacità, utilità e importanza del cosiddetto “buffone”, premiandone la saggezza?

Questa figura accanto ai re non era meno importante di quella dei filosofi.

La capacità di cogliere il lato umoristico delle situazioni e svelare prospettive inedite; sdrammatizzare i problemi del gruppo, allentare le tensioni dell’ambiente, richiamare a galla -con un gioco, una battuta, una semplice espressione facciale- il bambino interiore sepolto in ognuno; ridere e fare ridere anche quando sembrerebbe non esserci proprio nulla da ridere è, oggi più che mai, una grande abilità per la Vita.

Una ricerca compiuta dagli studiosi della St. Edwards University di Austin ha evidenziato come per l’81% degli impiegati lavorare in un ambiente di lavoro disteso e pervaso dal buonumore aumenta notevolmente la produttività.

Il buon umore, ridere insieme rinforza il senso di appartenenza di un gruppo, amicale, familiare, scolastico, professionale; migliora il problem solving; rinvigorisce la leadership.

Non è solo percezione. E’ scientificamente dimostrato che ridere ha un enorme potere benefico sul nostro corpo. Rilascia endorfine -gli ormoni della felicità-, aiuta a gestire l’ansia, riduce lo stress. Potenzia l’autostima.

E ancora: migliora la circolazione sanguigna, rafforza il sistema immunitario, aumenta gli scambi polmonari; tiene allenato il cervello...

Sul rapporto tra il ridere e la salute si è iniziato a lavorare negli anni ’70, alla Standford University; negli stessi anni la clown terapia entra negli ospedali con il dott. Patch Adams, raccontato sul grande schermo dall’indimenticabile Robin Williams .

Dobbiamo riprenderci la libertà di ridere e aiutare -finché siamo in tempo- i piccoli (troppo presto adultizzati, stressati!) a coltivarla perché, molto più della pedagogia “castrante” del serio, sviluppa potenzialità, è fonte di energia, aiuta a trovare il coraggio per affrontare la vita.

Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo. E’ Leopardi.

Non c’è da aspettare che le cose vadano bene per ridere.

Le cose non andranno mai perfettamente come vogliamo; ma, principalmente, è proprio nella sofferenza e nel dolore che ha più valore ridere.

Anche secondo Freud è un antidoto contro la sofferenza, un meccanismo di protezione.

Insomma, abbiamo bisogno di ridere! Oggi più che mai, dobbiamo impararne l’arte.

Sapevate che esiste la gelotologia (scienza del riso)? Dalle strutture assistenziali è entrata fra la gente attraverso lo yoga della risata. Al suo stesso fondatore, il dottore indiano Madan Kataria, si deve l’istituzione, dal 1998, della giornata mondiale della risata, manifestazione per la pace nel mondo, con la finalità di creare fratellanza e amicizia attraverso di essa.

Si è appena celebrata. Ricorre la prima domenica di maggio, a pochi giorni dalla giornata mondiale della famiglia.

Mi piace collegarle: imparare a ridere insieme è una delle più grandi fonti di energia e forza anche nella vita familiare!

L’Occidente tornerà a ridere? Lo spero. Perché una civiltà che non sorride è infelice. Tiziano Terzani

 

Alessandra Mazzei
Autore: Alessandra Mazzei

Diploma classico, laurea in Lettere classiche a La Sapienza, Master in Pedagogia, insegue una non facile conciliazione tra bios theoretikos e practikos, dimensione riflessiva e solitaria, e progettualità concreta e socialmente condivisa. Docente di Italiano e Latino, già Assessore alla Cultura e Turismo di Rossano, impegnata in diverse associazioni socio-culturali, ma, prima e più di ogni altra cosa, mamma, felice, di Chiara Stella, Gabriele e Sara Genise. Ha grande fiducia nelle capacità dei giovani, degli studenti, di quelli che poi restano e di quelli che vanno pensando un giorno di tornare. Spera di poter contribuire, insieme a loro e ad amici ottimisti, alla valorizzazione di questa terra di cui sente da sempre la forza delle radici, accanto al bisogno di paesaggi culturali ampi e aperti. Ama la scrittura, che vive, al pari dell’insegnamento, come itinerario di ricerca e crescita personale, da coltivare in forme individuali e collettive.