Il coraggio di essere in-genui
Contro l’antropologia del furbo una pista per rifondare comunità di cittadini felici
Ci sono parole che nei secoli hanno conosciuto una profonda risemantizzazione, cambiando significato e connotati valoriali. E la lingua è uno dei codici privilegiati per riflettere sul proprio tempo e i suoi orizzonti di riferimento.
E’ il caso della parola ingenuità. Formata da in e dal verbo gignere, etimologicamente rimanda al nascere dentro -le mura, la società-. Inoltre, i padri riconoscevano un figlio legittimo prendendolo in genua, sulle loro ginocchia. Ingenuitas era, quindi, un termine legale (tanto da esserci un vero e proprio ius ingenuitatis), condizionato ai principi di appartenenza e legittimità, da cui derivava la condizione di libertà, in contrapposizione a chi era invece sottoposto ad un patronus.
Quindi: ingenuità = libertà.
Per traslazione, passò poi ad identificare quelle caratteristiche tipiche degli uomini liberi, indipendenti, che potevano esprimere il loro pensiero e agire autonomamente, senza simulare o dissimulare comportamenti per asservimenti.
Quindi, ingenuità = onestà, schiettezza, sincerità, autonomia di pensiero.
A questi tratti si aggiunsero nei secoli anche altre sfumature.
Sempre per il legame etimologico al concetto dell’essere appena entrati nella vita, si assimilò l’ingenuità a quelle caratteristiche proprie dell’infanzia o dei popoli primitivi: la meraviglia, l’autenticità, la purezza, l’innocenza, la com-passione.
Concetti particolarmente valorizzati, tanto da soppiantare e segnare lo scarto semantico rispetto al primo originario significato del termine, quando Schiller, alla fine del ‘700, pubblicò il trattato Sulla poesia ingenua e sentimentale, segnando fortemente non solo lo stile, ma anche l’ideologia del Romanticismo europeo verso il vagheggiamento di quella dimensione della primigenia spontaneità, che trova la sua forza nel rapporto simbiotico con la natura, nella pienezza della vita, nella capacità di sognare e nella conseguente forza e felicità.
L’ingenuo, per Schiller, è quindi la persona felice perché in armonia con se stessa, con la natura, dotato di vigorosa energia, autenticità e ideali alti.
Ma -e qui avviene la svolta- già il filosofo tedesco aveva piena percezione che questa dimensione non appartenesse più ai moderni, ma piuttosto agli antichi o all’età infantile; magari rinvenibile in qualche popolo esotico. La malinconia ottocentesca era segnata, o originata, dalla consapevolezza che si trattasse di uno stato desiderato quanto irrecuperabile e che altra, più filtrata, con più sovrastrutture e infingimenti, fosse la condizione dei moderni. Ovviamente qui la strada porterebbe all’immenso Giacomo, al fanciullino pascoliano; ma andremmo fuori pista.
Il rapporto tra l’ingenuo e la società moderna diviene sempre più problematico e segnato da distacco e svilimento.
Quanto più la società si è vestita di cinismo e opportunismo e il modello antropologico si è imperniato sulle logiche che Plauto prima, Hobbes poi hanno riassunto nell’homo homini lupus, tanto più l’ingenuo venne e viene deriso.
Per Kierkegaard la perdita dell’ingenuità è proprio uno dei segnali più preoccupanti del declino della civiltà moderna, che lui non esita a definire “disonesta”. Disonesta, tra le altre cose, anche per la “confusione” con cui sembra essersi tolta all’individuo l’autonomia di pensiero, in nome di uno scivolamento nell’omologante modus vivendi di una società che si arroga il diritto di dettare valori e disvalori per tutti.
Così l’astuzia, la capacità di trarre sempre il meglio per sé, di subordinare principi etici sull’altare del successo -spesso coincidente col guadagno o con il potere-, o comunque di saper trovare il proprio posto al caldo, agendo sempre per uno specifico tornaconto, sono assurti ad attitudini virtuose, in quanto foriere di vantaggi e utilità. Di contro, l’ingenuità è diventata un disvalore, un atteggiamento proprio degli sciocchi destinati a fallire e ad essere feriti.
Certo l’ingenuità intesa come sguardo puro sulla realtà, attitudine a nutrire ideali e inseguire sogni, disponibilità a riconoscere il bene negli altri, desiderio di cercare e difendere la bellezza intorno a sé, prontezza nel darsi senza diffidenze, adesione passionale e fantasiosa alla vita rende, è vero, quanto mai vulnerabili.
Ma, alla fine, pur nella sua evoluzione concettuale, l’ingenuità è sempre, in fondo, come in origine, sinonimo di libertà, coraggio, autonomia e dignità.
E, in una giusta dose e accompagnata da consapevolezza, l’ingenuità è una qualità da rivalutare e incentivare, a livello sociale, e da non uccidere con il sopraggiungere dell’età adulta, a livello educativo.
Smettiamola di deridere gli ingenui e di promuovere l’antropologia del furbo!
“Non è affatto segno di maturità il perdere completamente l’ingenuità” e “all’esistenza umana sana e onesta appartiene sempre, fino all’ultimo, un certo momento di ingenuità” (Kierkegaard).
La rivalorizzazione dell’ingenuità, in tutta la sua polisemia, potrebbe essere una premessa per una pedagogia fondatrice di comunità abitate da cittadini felici e non da masse di individui cinici, egoisti e, in fin dei conti, smarriti nelle proprie solitudini e miserie interiori.
In copertina, foto di Rosellina Formoso