di LUIGI PANDOLFI* Per chi non l’avesse capito,
la crisi greca costituisce il risvolto paradigmatico di una caduta, politica ed ideale, dell’intero processo di costruzione europea. La conferma di come
il «sogno europeo» si sia trasformato in un incubo per milioni di cittadini, indipendentemente dal luogo della loro residenza. Invero, se guardiamo all’economia dei singoli paesi membri, ed agli sviluppi che la crisi ha avuto a partire dal 2008, ci accorgiamo che accanto ad una
divaricazione crescente tra i redditi delle persone, negli ultimi anni si sono fortemente accentuati gli squilibri regionali, con una netta divisione tra paesi creditori (esportatori) e paesi debitori. I primi, con in testa la Germania, collocati geograficamente a nord del continente, i secondi coincidenti con la cosiddetta “fascia mediterranea”. Per anni,
un’economia drogata dal credito ha alimentato bolle finanziarie ed immobiliari nei paesi del sud dell’Europa (più l’Irlanda), trainando le esportazioni dei paesi nordici. Quando la bolla è esplosa,
a pagarne il prezzo sono stati i cittadini. Gli stati, dal loro canto, hanno subito pesantemente gli effetti del collasso finanziario, assumendo sulle proprie spalle il peso del risanamento e dei salvataggi bancari. E l’
Europa? Beh, è cronaca di questi anni:
alla crisi ha contrapposto rigidi protocolli di austerità, che, anziché risolverla, l’hanno ferocemente aggravata. Più precisamente, si è utilizzata la crisi per imporre un governo permanente della stessa, finalizzato a smantellare ciò che rimaneva del “modello sociale europeo”, inteso come insieme di norme, strumenti, politiche pubbliche volte ad assicurare alti livelli di protezione ed inclusione sociale, diritti sociali e redistribuzione della ricchezza, attiva partecipazione dei cittadini alla vita della nazione. Quel sistema, insomma, che ha fatto vivere per decenni le nuove generazioni nella convinzione che la loro vita sarebbe stata migliore di quella dei propri padri.
I dati del disastro sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare da quelli sulla disoccupazione: dall’inizio della crisi in Ue ci sono nove milioni di disoccupati in più, di cui sette milioni si riferiscono alla sola zona euro.
In totale il numero dei senza lavoro presenti in Ue ha sfondato la soglia dei 25 milioni. Ovviamente, dietro questi numeri si cela un quadro molto differenziato al suo interno, con
casi estremi come quello greco, cui seguono quello spagnolo, portoghese ed italiano. Di nuovo la “fascia mediterranea”, per intenderci, dentro la quale il Mezzogiorno d’Italia (e la Calabria) è molto più vicino alla Grecia che al resto del Paese. Com’era prevedibile, di fronte ad una catastrofe di tali proporzioni, anche il sistema politico è stato sottoposto in quest’ultimo periodo a forti sollecitazioni. Nondimeno, se da un lato si registra, un po' ovunque, l’esplosione di fenomeni revanscisti, spesso venati di tendenze xenofobe e razziste, dall’altro si può cogliere l’affermazione di nuovi movimenti che potrebbero, nella loro radicalità, costituire, paradossalmente, l’unica àncora di salvezza per il progetto di integrazione europea. La fiducia dei cittadini nella “casa comune europea” è al minimo storico; solo un cambiamento radicale della sua governance, e della sua mission, può salvarla da un rovinoso declino.
Per questo la battaglia che sta conducendo il governo di Atene ci riguarda molto da vicino: nella trattativa tra la Grecia ed i suoi “creditori”, più che il debito, c’è il futuro dell’Europa. Da un lato l’Europa dell’austerità e della finanza, dall’altro l’Europa dei popoli, della democrazia, della giustizia sociale. Perché questa battaglia abbia successo, nondimeno, c’è bisogno di un mutamento del quadro politico nei paesi mediterranei, quelli che hanno subìto più pesantemente gli effetti della crisi e della sua gestione da parte di questa Europa. In autunno, per intanto, sono in programma le elezioni generali in Spagna e potrebbero aprire una breccia in questa direzione.
*Giornalista