Se non siamo morti di fame… poco ci manca
Nel nostro Fort Apache bisogna fare i conti con una realtà profondamente spaventosa: qui c'è il reddito pro capite più basso della Calabria (e d'Italia), il lavoro è più precario che mai e ogni giorno si abbassano saracinesche. Che facciamo?
L’altra sera in quell’inutile Consiglio comunale celebratosi esclusivamente per recitare il Requiem di un’opportunità mancata, il sindaco Flavio Stasi nell’illustrare dettagliatamente e – bisogna dirlo – anche efficacemente le ragioni di un ricorso al Capo dello Stato che, di fatto e almeno ufficialmente, avrebbe bloccato l’investimento di Nuovo Pignone BH nel porto di Corigliano-Rossano, ad un certo punto del discorso ha detto “Noi non siamo un paese di morti di fame”. Un’espressione fortissima utilizzata dal primo cittadino certamente per far leva sulla dignità di un territorio che non può stare con il cappello in mano ad elemosinare “investimenti a tutti i costi” ma anche per far riverberare la eco - da qualche tempo sopita – dell’orgoglio identitario, della cosiddetta tigna che a casa nostra, in vero, ha sempre creato danni incalcolabili.
Ma finché diciamo che “non siamo morti di fame!” per salvare faccia e dignità, ci può stare.
Poi, però, bisogna fare i conti con la realtà. Che – inutile dirlo – è triste, drammatica, profondamente spaventosa. Perché se non siamo morti di fame, nella landa desolata della Sibaritide, poco ci manca. E non lo dice la percezione di un pessimista o di un detrattore a tutti i costi. Lo dicono i numeri, i dati statistici e i fatti.
In particolare lo dicono tre indicatori e ognuno fotografa la realtà da punti diversi: c’è un dato scientifico come il reddito Irpef, che si attesta nel territorio del nord-est a 13mila euro pro capite annuo (la media italiana è di 30mila euro e, per inciso, a Vibo Valentia è di 20mila, a Crotone di 18mila, a Lamezia Terme di 17mila euro); c’è un dato Istat sulla qualità del lavoro e dice – ad esempio – che su circa 30mila occupati residenti a Corigliano-Rossano più di ventimila sono stagionali (agricoltura e settore turistico/ristorativo per lo più); c’è un dato empirico, visivo, relativo al numero enorme di saracinesche di attività commerciali che si sono abbassate definitivamente nell’ultimo decennio.
Non siamo alla fame ma il baratro è vicinissimo e se ancora non ci siamo finiti dentro è grazie all’assistenzialismo e agli ammortizzatori sociali che, in qualche modo, ci mantengono a galla.
C’è un modo per invertire la rotta?
C’è un modo per far sì che, nonostante si viva in condizioni critiche, ci siano ancora i margini per rifiutare o quantomeno fare le pulci ai grandi investimenti in nome di una prospettiva diversa?
Baker Hughes così come Enel hanno rinunciato – per un motivo o per un altro (ma gradiremmo sapere la verità) - ad investire in questo territorio. Abbiamo pensato ad un’alternativa? Perché di un’alternativa abbiamo necessariamente bisogno. Non ci piace la metalmeccanica e più in generale non ci piace l’industria che nell’immaginario nostrano ancora sbuffa fumi neri e tristi dalle ciminiere e provoca inquinamento, distruzione, morte. Benissimo. Quindi che facciamo? Una cosa è certa: oggi si vive di stenti e quei pochi che ancora nascono qui lo fanno già sapendo che un giorno dovranno emigrare per vivere. E non serviva la proposta di investimento di una grande multinazionale per accorgerci di questa drammatica realtà. Stavamo male già prima.
Ecco perché serve, è necessaria, è indispensabile un’alternativa. Possibilmente immediata. Perché, in realtà, non c’è più nemmeno tempo per pensare a qualcosa di diverso. Può anche non piacere questo ragionamento ma purtroppo i fatti ci dicono che è così.
Il settore agricolo è morente, le floride campagne di clementine da qualche stagione a questa parte sono diventate una sfida contro il tempo. Ogni notte i produttori agrumicoli (quelli che producono e vendono il prodotto locale) stanno dietro alle finestre sperando che cada un po’ di pioggia ma che non sia una pioggia torrenziale, una grandinata o, ancor peggio, una gelata.
Vogliamo parlare della pesca? È il settore produttivo primario più crisi per eccellenza, ma non solo nella Sibaritide e in Calabria ma in tutto il bacino del Mediterraneo.
Vogliamo parlare del turismo? Abbiamo forse una destinazione che ci può consentire la speranza (non la certezza) di intercettare i flussi crocieristici, diportistici o più genericamente turistici? Ma in fin dei conti con chi vai a parlare di Destinazione se la maggior parte degli operatori del settore che operano nel nostro territorio crede che la destinazione sia un termine da navigatore satellitare!?!
Insomma, è una situazione triste e drammatica; e dobbiamo dircelo francamente. Il problema – il vero ed immenso problema – è che qui, nel nostro Fort Apache, in questa grande riserva indiana, parla, s’incazza e detta legge solo chi ha la panza piena o chi è direttamente investito da un problema. Tutti gli altri, quelli che avrebbero davvero bisogno di pane e dignità, sono sopiti, anestetizzati, socialmente ed intellettualmente morti, intenti a scrollare compulsivamente le pagine dei social sfogando lì (e solo lì) la propria frustrazione. Anche questo, però, è un atteggiamento del tutto condivisibile. Perché ad un padre di famiglia che oggi lavora e domani non lo sa, quanto può interessare delle questioni della collettività? Zero. E per la politica, per i capi popolo questo vale moltissimo perché è in questo contesto che si governa perfettamente quella logica perversa e machiavellica del padrone e sotto.
Oggi servirebbe davvero la piazza e una rivoluzione gentile fatta di rivendicazione, consapevolezza e amore verso la propria terra (ancor prima che verso sé stessi).