In tempi in cui c’è un insetto killer che mangia le nostre olive, la produzione cala a picco e il buon extravergine d’oliva, oggi più che mai, diventa merce rara, essere la seconda regione italiana per superficie di oliveti e per produzione serve a ben poco. La richiesta d’olio di qualità c’è ed è sempre più intensa a fronte, però, di un’offerta che non può coprire il fabbisogno della popolazione. Per questo, sempre più spesso si preferisce scendere a compressi che compromettono tutto, deviando la scelta su prodotti il più delle volte importati (come oli di soia, palma e colza) provenienti non si sa da dove. E la loro domanda, sfruttando la crisi economica e la diffusa disinformazione del consumatore, cresce e crescerà sempre di più in nome del “dio denaro”. D’altro canto, parliamo di prodotti che costano molto poco nella grande distribuzione e si conservano più a lungo. Non è difficile, quindi, immaginare il motivo per cui l’extravergine d’oliva, da millenni l’immagine stessa della dieta mediterranea, si stia trasformando in un oggetto di lusso, quasi un prodotto di nicchia. Snobbato e maltrattato nelle sue stesse terre di origine e produzione. Cioè da noi.
Se a questo aggiungiamo il fatto che utilizzare oli vegetali, sulla base di norme nazionali e comunitarie a maglie ancora troppo larghe, resta ancora oggi del tutto legale, non stupisce che il loro consumo sia così ampio e diffuso. Quello che, in verità, può lasciare particolarmente sconcertati è il fatto che proprio qui, nella patria di uno degli oli d’oliva riconosciuti tra più buoni del mondo, l’uso e consumo di prodotti che dell’oliva non hanno neanche l’odore stia diventando una brutta abitudine. Parte da qui la nostra inchiesta telefonica volta a verificare se e in che percentuale, per esempio, i ristoratori del comprensorio facciano uso di questi oli, anziché del nostro buon extravergine.
Le risposte sembrerebbero poterci far tirare un sospiro di sollievo: la maggior parte dei nostri intervistati ci garantisce di utilizzare, nei condimenti, solo ed esclusivamente olio extravergine di oliva, limitandosi all’uso di diversi oli di semi, pare solo per friggere. Fin qui le telefonate. Peccato, però, che facendo un giro nei nostri comuni possa capitare di scorgere lattine e taniche vuote che non sembrerebbe abbiano mai contenuto una goccia di extravergine. Qualcuno dovrà pur usare in cucina il contenuto di questi bidoni. O no? Nel dubbio, ecco qualche consiglio al consumatore, per riconoscere l’olio di qualità, il vero extravergine d’oliva. Lo abbiamo chiesto a Pino Giordano, coordinatore regionale Guida extravergini di Slow Food.
«Innanzitutto – ci dice subito – bisogna rifiutare le oliere portate in tavola perchè vietate: gli oli per condire, infatti, devono necessariamente essere convenzionati e, quindi, dotati di tappo anti rabbocco. In caso contrario, le multe previste per i ristoratori possono variare da un minimo di duemila a un massimo di ottomila euro.
Al supermercato, bisognerebbe preferire oli Dop (Denominazione di origine protetta), verificare l’area geografica di provenienza e stare molto attenti al prezzo. Dietro un costo troppo conveniente, potrebbero nascondersi prodotti non italiani e di scarsa qualità. Una bottiglia da 0,75 ml di buon olio extravergine costa in media sei euro. Al di sotto di questa soglia, è meglio iniziare a farsi qualche domanda su che cosa stiamo comprando per condire i nostri alimenti». Parola di esperto. Del resto – aggiungiamo noi – perché quando si sceglie un olio minerale per le proprie autovetture si chiede il meglio, senza badare al prezzo mentre per l’olio alimentare, necessario al nostro motore biologico, si diventa paradossalmente così avari? Qualcosa non torna. Servono più educazione e informazione.
m. f. s. t.