Parthenope: una metafora della vita, tra bellezza e decomposizione
Le impressioni e le riflessioni sull'ultimo film di Paolo Sorrentino, che ha suscitato intorno a sé una nutrita sequela di pareri contrastanti. L’arte spesso vale perché ti fa interrogare, non perché ti offra facili risposte
CORIGLIANO-ROSSANO - È uscito nelle sale italiane giusto un mese fa, sfilato in quelle nostre cittadine qualche settimana dopo, Parthenope, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, che ha suscitato intorno a sé una nutrita sequela di pareri contrastanti, da quanti inneggiano al capolavoro a quanti, irritati, lo licenziano con disapprovazione.
Non fosse altro che per questo, oltre che per i precedenti del regista, il film va visto.
Poi, che il turbinio delle impressioni abbia inizio.
Il film è costruito sul parallelismo tra la città di Napoli e una giovane donna che, bellissima e vagamente sognante, come l’omonima figura mitologica figlia di Giunone e Minerva, ha nome Partenope, proprio a sottolineare la complessa identificazione, per alcuni versi ossimorica, tra lei e l’Urbs sanguinis, o Urbs solis.
La parabola temporale segue per ellissi la storia personale della protagonista e quella sociale dell’Italia e di Napoli tra la metà del Novecento e la fine del XX secolo, trovando il cuore centrale nei disordini e nelle fasi anarchiche e rivoluzionarie del ’68, di cui la Parthenope universitaria si fa in qualche modo espressione.
Ma entrambe le dimensioni (città e persona) sono cariche di tutti i contrasti e le antitesi che possono trovare spazio tra bellezza e decomposizione, splendore e degrado, che sono i due assi entro cui mi sembra iscrivibile la pellicola.
Vige come motivo conduttore la disponibilità, apertura ad accogliere e rappresentare, senza censure e giudizi, tutti gli aspetti della vita, da quelli apparentemente più nobili -smascherati, dileggiati- a quelli più degradati e degradanti. Questi ultimi assumono vari volti. Uno di questi è la mafia e le sue pratiche disumane e mortificanti della persona e dei corpi; un altro le dinamiche familiari complesse e non costruttive, che scivolano in forme morbosamente incestuose e castranti, fino a finire nel suicidio: negazione di ogni soluzione positiva, di ogni crescita, incapacità di andare avanti e poi sensi di colpa, sentiti e fatti sentire. Anche l’arte appartiene a questo mondo del degrado, qui trasformata in paradosso e maschera di se stessa. Infine, c’è la rappresentazione iperbolica di una sacralità che, accanto al volto della animata devozione popolare, sfocia in una dissacrante blasfemia che ho sinceramente trovato pesantissima ed esageratamente carica, sgradevolmente brutta, inquietante, come il travestimento diabolico del cardinale (da quello sfarzoso a quello minimalista di uno stringato bikini, entrambi rosso porpora), o i gioielli sfarzosi appoggiati sul corpo nudo di lei, e la scena tutta in sé, in quel luogo, in quelle forme.
Eppure ogni cosa è proposta senza presa di posizione, senza giudizio, senza filtro "etico", senza intenzione morale.
Non è un caso se la protagonista studia antropologia, che diventa, forse, l’unica possibile chiave di lettura per capire l’intero film nelle sue motivazioni. Lo rivela una domanda reiterata, semplice, ma carica di senso che lei propone spesso nella storia, rivolgendola all’austero e sofferente prof. Marotta, il personaggio che più ho amato: cos’è veramente l’antropologia? L’anziano e disilluso maestro, dopo varie risposte di circostanza o da manuale, dirà, in modo molto conciso, che “l’antropologia è vedere”.
Ecco, vedere, rappresentare, raccontare, senza giudicare: “io non ti giudico, tu non mi giudichi” dice ancora il docente alla sua brillante tesista.
Sorrentino, allora, forse, ha voluto fare vedere. Vedere, dalla sua prospettiva di osservazione, la realtà di Napoli, che credo, al di là del dato specifico, sia da intendersi come metafora della vita stessa.
Napoli (e con essa Parthenope e la vita… complesso ma attendibile trinomio narrativo-rappresentativo) è bellissima, sensuale, sorprendente, ma con chiaroscuri dalle estenuanti tinte barocche, capace di esprimere gioia, ma anche di contenere ogni forma di degrado (nell'assenza di ogni dimensione fintamente morale), di brutto e di deformità. Una deformità simbolica che torna in diversi personaggi, fino all'acme finale della rivelazione del "monstrum", inverosimile per misura (essa pure mitologica), incredibile, ma allo stesso tempo dolcissimo e bambino. Credo che la smisurata visione finale possa essere simbolo e sintesi di tutto il resto: un abnorme, esagerata realtà, che ha perso la misura, ma che è la vita. Questa creatura "è fatta di acqua e sale" dice il padre; come il mare, quello napoletano, ma anche come il mare della vita, come quello dov'è nata Parthenope; quindi come Parthenope forse. Che questa immagine finale sia la raffigurazione del mondo interiore di Parthenope stessa, un po’ come il dipinto di Dorian Gray? Enorme e piccolo insieme, mostruoso e fragile, carico di ogni contrasto, ma addolcito da due occhi bambini che sorridono agli altri.
Certo, se dovessi dire con sincerità, il film ha lasciato in me -e in chi era con me, con cui abbiamo insieme raccolto le impressioni riproposte in questo scritto e che perciò ringrazio-, un forte ma impreciso senso di nausea, irritazione, sfinimento. Probabilmente il tutto voleva essere una denuncia dei contrasti del nostro tempo e delle nostre vite.
Forse Parthenope vuole appositamente "disturbare", andando contro ogni visione edulcorata di realtà fintamente moralistiche. O forse Sorrentino ha voluto solo offrire solo una sua "visione" del reale, priva di intenti secondi e senza giudizio alcuno. Non ho la risposta. Ma l’arte spesso vale perché ti fa interrogare, non perché ti offra facili risposte.