Sibaritide, l’oro agricolo da 142 milioni che l’Italia (e la Calabria) continua a ignorare
Solo agrumi e olive valgono già 142 milioni di euro l’anno, ma senza acqua, porto, aeroporto e piastra del freddo la Sibaritide resta un gigante con i piedi d'argilla. Ecco i dati di ISTAT e CREA che raccontano il paradosso

CORIGLIANO-ROSSANO - La Sibaritide è una delle aree agricole più fertili del Mediterraneo, ce lo sentiamo ripetere da quando andavamo a scuola: un pianoro che da secoli nutre la Calabria. Una grande distesa coltivata ma che, però, produce solo una parte infinitesimale della sua vera ricchezza. Eppure, oggi, con un mondo in continua evoluzione, quest'area potrebbe giocare un ruolo decisivo nell’agroalimentare nazionale ed europeo. Quel ruolo che oggi non ha. I numeri che emergono dai dati ufficiali raccontano, infatti, una storia a metà: tanta ricchezza potenziale, ma anche infrastrutture assenti, progetti bloccati e produttori lasciati soli a combattere contro i limiti di un sistema che non riesce a decollare.
Secondo il 7° Censimento generale dell’agricoltura dell’ISTAT, il solo comune di Corigliano-Rossano – cuore pulsante della Piana di Sibari – conta oltre 7.700 ettari coltivati ad agrumi e più di 8.600 ettari di uliveto. Tradotto in valore economico, con le stime di redditività elaborate da CREA – Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e dalla Rete Rurale Nazionale, significa oltre 62 milioni di euro di produzione lorda vendibile dagli agrumi e altri 41 milioni dall’olivicoltura.
Ma questo è solo l’inizio: se allarghiamo lo sguardo all’intera Sibaritide, che comprende anche Cassano Jonio, Crosia, Villapiana e Trebisacce, il valore complessivo sfiora i 142 milioni di euro, soltanto considerando agrumi e olivo. Un tesoro che cresce ulteriormente se si includono le altre colture, come il pesco, il fico e le ortive, e che diventa enorme se si guarda all’agroindustria della trasformazione.
Eppure, questa ricchezza è schiacciata da un paradosso. Mentre le campagne producono arance, clementine e olive di qualità riconosciuta in tutta Europa, i produttori della Sibaritide, ad esempio, devono ancora elemosinare l’acqua dal Consorzio di Bonifica per poter irrigare. Le stesse aziende che potrebbero competere sui mercati globali sono costrette a rincorrere turni d’acqua e a scavare pozzi, in un territorio che pure dispone di invasi e corsi fluviali abbondanti.
Un distretto agroalimentare solo sulla carta e la piastra del freddo che non c'è
La filiera, inoltre, sconta un’assenza che pesa come un macigno: la mancanza di una vera piastra del freddo per la conservazione e la lavorazione dei prodotti. Un’infrastruttura di questo tipo permetterebbe di allungare la vita commerciale delle produzioni, ridurre le perdite post-raccolta e alzare la capacità contrattuale dei produttori locali. Invece, troppo spesso il valore aggiunto evapora durante la catena distributiva, arricchendo altri territori meglio attrezzati: la Puglia e la Sicilia per restare nei "dintorni", la Spagna, la Turchia, il Marocco se - invece - vogliamo allargare lo sguardo nel bacino del Mediterraneo.
La svolta epocale con porto e aeroporto
Il problema non è solo agricolo, ma anche logistico. La Sibaritide è un triangolo strategico che guarda al Mar Ionio, al Metapontino lucano e alla Valle di Diano campana, ma rimane tagliata fuori dalle grandi reti di trasporto. Il porto di Corigliano-Rossano, un tempo promesso come hub commerciale per l’agroalimentare del Sud, giace sottoutilizzato. L’aeroporto della Sibaritide, che potrebbe servire tre regioni e garantire vie rapide per l’export, resta un progetto che non si traduce in cantiere e, anzi, viene quasi deriso come un'infrastruttura che potrebbe essere solo a perdere. Intanto i produttori continuano a spedire le loro merci su gomma, percorrendo strade tortuose e costose, mentre la concorrenza europea viaggia veloce su rotaie, cargo e corridoi intermodali.
Insomma, i dati lo dimostrano con chiarezza, la Sibaritide è un distretto agroalimentare naturale ma rimane solo sulla carta (istituito ufficialmente il 13 ottobre 2004 con Legge Regionale 21/04) ma sono 21 anni che a queste latitudini si attende che vengano messe a terra tutte le enormi potenzialità che quest'area può esprimere. Ma come al solito le istituzioni locali, regionali e nazionali investono poco o nulla sue infrastrutture.
Se questo accadesse, la ricchezza generata non sarebbe soltanto economica: si tradurrebbe in occupazione stabile e qualificata, in un marchio territoriale riconoscibile e in una rinascita per un’area che oggi conosce più spesso le cronache per spopolamento e disoccupazione che per il suo straordinario potenziale agricolo.
La Calabria del nord-est, quindi, rimane un gigante agricolo dalle gambe di argilla, nonostante abbia le potenzialità per diventare - davvero - il distretto agroalimentare che la sua storia, la sua geografia e i suoi numeri, sin dai tempi dei primi coloni Greci, le impongono di essere. Le cifre dell’ISTAT, del CREA e della Rete Rurale sono lì a dimostrarlo. La sfida ora è politica e infrastrutturale. E il tempo, per questo territorio, non può più essere rimandato.