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«In un tempo che dissolve ogni certezza, la Chiesa è chiamata a tessere il filo della speranza»

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CASSANO JONIO - Pubblichiamo di seguito l'articolo di Monsignor Francesco Savino, Vescovo di Cassano Jonio e Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo "Papa Leone XIV e le questioni sociali oggi: dalla Rerum novarum alla conversione dell'umano" pubblicato su "Studi e ricerche su don Carlo De Cardona" n.9.

Una genealogia del nome, una profezia del tempo

Non occorre indossare gli abiti della devozione per avvertire la forza generativa di un nome. Leone XIV non lo ha scelto per indulgere a fasti liturgici o per evocare nostalgie da sagrestia: ne ha fatto un nome che si fa gesto teologico e segnale politico, capace di inscriversi nella storia come promessa e visione.
Una scelta gravida di senso e di intenzione, che richiama quella che Maurice Blondel avrebbe definito
la logica dell’azione incarnata, in cui il simbolo non si limita a rappresentare, ma opera; non descrive soltanto, ma chiama all’esistenza una realtà ancora da compiersi.

In quel Leone non riecheggia il fragore spento del potere, ma il bisogno urgente di una forza mite, di
un coraggio ecclesiale in grado di attraversare il presente senza fuggirlo. È un nome che si pone dentro
una linea di frattura e di continuità: raccoglie l’eredità profetica di Leone XIII – che nel 1891, con la Rerum novarum, osò inserire la voce della Chiesa nel cuore delle contraddizioni moderne – e, al tempo stesso, annuncia una nuova postura: non più soltanto magisteriale, ma conviviale, generativa, pastorale nel senso più incarnato del termine.

La posta in gioco, oggi, è più alta. Non basta più prendere posizione: occorre abitare lo spazio della complessità come luogo teologico. La storia non è più sfondo, ma proscenio della riflessione ecclesiale. In questa prospettiva, la scelta di Leone XIV assume i tratti di un dispositivo simbolico aperto, un invito a ripensare la Dottrina sociale non come deposito di princìpi, ma come sorgente di discernimento dinamico, chiamato a interloquire con le nuove questioni dell’umano, della tecnica e del senso.

La Dottrina sociale come teologia del reale

Papa Leone XIV non richiama la Dottrina sociale della Chiesa come un archivio di norme da conservare, ma come una fonte viva di orientamento, un linguaggio incarnato per affrontare le fratture del presente. Il nostro
frangente storico non ha bisogno di parole solenni, ma di presenze capaci di leggere i segni dei tempi e di stare dentro, di abitare, le ferite della storia. Non basta proclamare la verità: occorre renderla credibile, accoglierla lì dove il mondo è disordinato, ferito, ambiguo.

La Rerum novarum rappresentò, a suo modo, un evento teologicopolitico di rara portata: nel cuore pulsante della modernità industriale e capitalista, la Chiesa intraprese una dichiarazione solenne in difesa della
dignità del lavoratore, opponendosi con fermezza alle logiche dell’accumulazione disumana e all’indifferenza della comunità atomizzata. Non si trattava solo di un intervento sociale, ma di un manifesto che risuonava
come eco di giustizia e umanità nel caos di un ordine economico alienante.

Oggi, tuttavia, quel paradigma è chiamato a misurarsi con un mutamento antropologico radicale, che va ben oltre il progresso materiale: un’epoca in cui l’essenza stessa dell’umano rischia di sgretolarsi, sopraffatta dalla tirannia della funzionalità e dell’efficienza; epoca in cui ogni individuo, ridotto a capitale produttivo, rischia di perdere la propria consistenza, la propria dignità.

Leone XIV sembra rilanciare la necessità di una teologia del reale: non una teologia delle idee, ma una teologia dei corpi, dei legami, dei conflitti, capace di cogliere il grido dei poveri e quello della terra come rivelazione del divino nella storia. Questa visione sacrale e immanente diventa il fondamento di una Dottrina sociale che non è più un semplice commento all’attualità, ma un luogo critico e profetico, capace di generare trasformazioni radicali. Si tratta di accendere un fuoco di cambiamento che muova dal cuore stesso delle strutture sociali, mutandole dall’interno e rendendo concreta quella verità che solo nella storia si può compiere.

Tecnica, intelligenza artificiale e dissoluzione dell’umano

Il XXI secolo non si configura più soltanto come l’epoca dell’industrializzazione o della lotta di classe, ma si impone come il tempo dell’espropriazione dell’umano attraverso il dominio della tecnica. Già Heidegger aveva compreso come la tecnica non si riducesse a semplice mezzo a servizio dell’uomo, ma si costituisse come quel paradigma ontologico capace di modellare la realtà stessa. Oggi, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, la manipolazione genetica, la crescente datificazione dell’esistenza pongono una questione radicale e non eludibile: può l’uomo rimanere sé stesso nel tempo della replicabilità algoritmica e della automazione diffusa?

In questo scenario inquieto, papa Leone XIV richiama già con forza l’urgenza di una spiritualità del limite, e di una filosofia della responsabilità in profonda consonanza con l’eredità del pensiero di Jonas. Contro ogni
forma di prometeismo tecnologico, si alza la voce di una sapienza antica che riconosce nella finitudine non una condanna ma una condizione di verità. Il sogno di una potenza illimitata, privo di ancoraggi etici e spirituali, rischia di rovesciarsi nella dissoluzione della libertà stessa, riducendo l’umano a funzione, a ingranaggio replicabile, a cifra da elaborare. Eppure, è proprio in questa epoca di smarrimento che il cristianesimo può ancora offrire una parola distinta e necessaria: non la parola della paura, che
paralizza, ma quella del discernimento, che illumina. Una parola capace di custodire l’umano, di difenderne la dignità e l’unicità, anche dentro le sfide più ardue del post-umano. Una parola che invita non al rifiuto della
tecnica, ma alla sua trasfigurazione etica, perché solo riconoscendo il limite è possibile salvare la libertà.

In un’epoca segnata da un avanzamento tecnologico che pare inarrestabile, l’essenziale non è contrapporre ideologicamente la fede alla tecnica, come se si trattasse di due sfere inconciliabili. La questione vera è
più profonda, più radicale: essa chiama in causa i presupposti ultimi che orientano le scelte dell’uomo contemporaneo. Quale visione dell’umano informa le direttrici dello sviluppo scientifico? Quale antropologia soggiace alla progettazione degli algoritmi, alla manipolazione genetica, alla costruzione di intelligenze artificiali? Non basta interrogare i mezzi; occorre domandarsi il fine. Se la tecnica viene spinta da un’idea funzionale e performativa della persona, allora l’essere umano stesso rischia di essere ridotto a ingranaggio di un sistema, a dato computabile, a oggetto modificabile. La domanda antropologica non è marginale, ma fondativa: ogni civiltà, ogni cultura, ogni epoca plasma la propria tecnica a partire da ciò che crede sull’uomo. È qui che la fede cristiana non propone una teoria astratta, un modello ideologico, un insieme di
regole esterne. Essa offre un volto. Un volto attraversato dalla sofferenza e dalla compassione; un volto che non si impone con la forza, ma si lascia incontrare nel dramma dell’umano. Il Cristo crocifisso e risorto diventa, così, la cifra simbolica e reale di una risposta altra: non quella dell’efficienza, ma della prossimità; non quella del dominio, ma della custodia. Egli non si sottrae al dolore del mondo, ma lo assume e lo trasfigura, preservando l’umano là dove tutto sembrerebbe dissolversi nel flusso anonimo della tecnica.

Questa è la sfida: restituire al volto umano la sua sacralità, non come rifugio nostalgico, ma come atto profetico. Perché dove si salva l’umano, lì si apre ancora uno spiraglio di salvezza per il futuro.
Nel tempo presente, le disuguaglianze non si lasciano più definire unicamente dai parametri economici o dall’accesso ai beni materiali. Esse assumono forme più sottili e pervasive: disuguaglianze simboliche, relazionali, spirituali. Si è poveri non solo per ciò che manca, ma per ciò da cui si è esclusi: dalle condizioni essenziali per fiorire come esseri umani. Là dove viene negato l’accesso alla cultura, spezzata la trama delle relazioni significative, incrinata la stabilità interiore, oscurato l’orizzonte del senso, lì si genera una nuova forma di indigenza, più silenziosa ma non meno lacerante. L’abbandono educativo, la solitudine strutturale, l’apatia civica non sono meri effetti collaterali: sono i segni di una frattura antropologica che interroga la coscienza collettiva e chiede risposte che siano al tempo stesso giuste e generative. 

In questo scenario, il cambiamento climatico non è più solo una crisi ambientale: è una crisi antropologica e sociale. Colpisce con maggiore violenza proprio i più vulnerabili, aggravando migrazioni forzate, insicurezza alimentare, devastazioni territoriali. La questione ecologica è inseparabile da quella sociale: il grido della terra è anche il grido dei poveri.

A ciò si aggiunge un nuovo paradigma silenzioso: il lavoro povero. Non più soltanto disoccupazione, ma lavoro che impoverisce, che sfrutta, che spezza. Uomini e donne che lavorano a tempo pieno eppure restano
sotto la soglia, privi di tutele, ridotti all’impotenza, esclusi dal discorso. È l’apoteosi del paradosso: lavorare e restare poveri.

Per Leone XIV, la povertà non si configura meramente come ferita da curare, ma si rivela quale luogo teologico, soglia attraverso cui penetrare le logiche più profonde del potere, dell’emarginazione, dell’umano abbandono. È da quel margine che si rivela il centro: da lì si lascia intravedere la verità nascosta dell’ordine sociale e spirituale. In tale prospettiva, la Dottrina sociale della Chiesa non si riduce a un insieme di precetti morali o a un’appendice etica del magistero: essa diventa lingua dell’inclusione, strumento di discernimento critico, fermento di riscatto. Non commento, ma profezia. Non regola, ma respiro.

Il pontefice invita a un’ecclesiologia incarnata, che non si ritira nei sacrari ma abita i cantieri del mondo. E denuncia con forza ogni forma di ingiustizia strutturale non con proclami astratti, ma con parole e gesti
capaci di generare processi. Perché il Vangelo, del resto, non consola soltanto: trasforma.

Verso una nuova ecclesiologia della giustizia

La Chiesa che Leone XIV immagina non è quella dei giusti, degli impeccabili, dei già arrivati, ma è ecclesia viatorum, la comunità dei pellegrini, un popolo in cammino che porta con sé la fragilità e l’ascolto. In un tempo che sembra dissolvere ogni certezza, la Chiesa è chiamata a tessere il filo della speranza e della fraternità, non come un sentimento superficiale, ma come una solida architettura comunitaria, capace di rigenerare il tessuto sociale.

È il compito di elaborare una nuova sintassi della convivenza, una grammatica del vivere insieme che restituisca dignità ai legami umani. In questo cammino, la Chiesa non è un giudice che condanna, ma una
madre che discerne, una voce che offre misericordia. Non è l’eccezione che fa giustizia, ma la giustizia che si fa misericordia, che supera l’equità giuridica, la scardina, la redime. La giustizia evangelica non si limita a rispettare le leggi degli uomini, ma spinge oltre, risanando le ferite e restituendo all’umano la sua pienezza.

L’impegno sociale non è appendice, ma manifestazione concreta del Vangelo. La politica, in questa prospettiva, non è semplicemente tecnica del possibile, ma può diventare orizzonte umano in cui si misura la qualità della speranza cristiana. Leone XIV sembra raccogliere l’intuizione profonda di papa Francesco: la fraternità come categoria politica, la cura come forma civile della responsabilità condivisa, la prossimità come stile che rigenera il tessuto collettivo. Non si tratta di sacralizzare la politica, ma di abitare la storia con lo sguardo di chi sa che ogni istante è carico di responsabilità.

Verso un’ecologia dell’umanità: l’auspicio di una continuità profonda

Nel contesto delle sfide ambientali, climatiche e antropologiche che segnano il nostro tempo, ci si auspica che papa Leone XIV possa proseguire, con radicalità e sapienza, nella scia profetica tracciata da papa Bergoglio, soprattutto attraverso le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti. L’idea della casa comune non è solo un’immagine poetica, ma una categoria teologica e sociale che ha ridato profondità spirituale al discorso pubblico della Chiesa.

Il grido della terra e quello dei poveri, uniti nella visione di Francesco, continuano a interpellare con forza la coscienza cristiana e universale. In questo orizzonte, l’ecologia integrale si configura come sintesi alta tra giustizia, cura del creato e spiritualità della relazione: una spiritualità relazionale che riconosce nella trama dell’esistenza un intreccio sacro, dove ogni forma di vita chiede rispetto e custodia.

Leone XIV, pur muovendo i primi passi del suo pontificato, sembra già sensibile alla necessità di custodire questa visione, rilanciandola con una maggiore enfasi sulla responsabilità politica e comunitaria. Non si tratta
semplicemente di un’agenda «verde», ma di una conversione di sguardo, di una rilettura dell’umano che sappia riconoscere nella cura della terra un atto di fede, una forma concreta di amore evangelico.

Se davvero il futuro della Chiesa passa attraverso la capacità di sostare nei luoghi di confine, dove l’umano si espone e si reinventa, allora l’ecologia integrale sarà una delle più decisive: non solo come sfida culturale,
ma come luogo teologico, come luogo in cui riscoprire, oggi, la bellezza della creazione e la fragilità che ci rende fratelli.

La dignità come profezia inquieta

Forse il primo vero segno di discontinuità di Leone XIV è già sotto i nostri occhi: aver riportato nel cuore del discorso pubblico quella parola ferita e luminosa che è dignità. Non come concetto da tutelare, ma come esperienza da riscattare. Non è più tempo di parole vuote o di promesse che si dissolvono nel
vento del disincanto. La dignità, nella sua luce ferita, reclama di essere vissuta, di essere riscattata dall’indifferenza che tende a consumarla. Essa emerge, vibrante e fragile, come un segno di resistenza nell’epoca della frenesia e della solitudine esistenziale, dove l’uomo è assediato dal rumore
del mondo e dal vuoto delle sue connessioni.

In questo contesto, papa Prevost ci invita a guardare con occhi nuovi ciò che si nasconde dietro la superficie della nostra quotidianità: il bisogno profondo di essere visti, di essere ascoltati, di essere accolti in tutta la
nostra vulnerabilità. È questa la vera essenza dell’umano, il desiderio che, in un mondo che sembra dimenticare l’altro, non può essere annientato: il bisogno di esserci reciprocamente.

La Chiesa, oggi, non può più rincorrere la logica del mondo né lasciarsi assorbire dalle sue priorità. Essa è chiamata a precederlo nel servizio, come una guida silenziosa che cammina avanti e sotto, là dove il buio della storia ha fatto tacere la speranza. La Chiesa è chiamata a denunciare dove gli altri tacciono, a portare la luce là dove le ombre sembrano inghiottire ogni cosa.

In questo servizio, non si fa annunciataria di una verità che schiaccia, ma custode di un’anima che cerca, che domanda, che si interroga. Non è una verità da imporsi, ma una verità che accompagna, che ascolta, che accoglie la voce dell’altro come un luogo sacro e sacrificale.

In questo passo discreto, ma profondamente audace, Leone XIV risveglia qualcosa che appartiene alla nostra umanità più vera: non la conquista della perfezione, ma la riscoperta della bellezza quotidiana di essere umani, nonostante il caos che ci circonda. È il fremito nascosto di chi, sotto le macerie di un mondo distratto e smarrito, sa che la vita è un miracolo quotidiano, un atto di resistenza che, pur nelle sue fragilità, non cessa mai di rinascere.

Questa è la vera profezia: che l’umano non si lascia mai abbattere, anche quando sembra dissolversi, perché la dignità, pur ferita, è la luce che mai smette di brillare nel cuore della notte.

Redazione Eco dello Jonio
Autore: Redazione Eco dello Jonio

Ecodellojonio.it è un giornale on-line calabrese con sede a Corigliano-Rossano (Cs) appartenente al Gruppo editoriale Jonico e diretto da Marco Lefosse. La testata trova la sua genesi nel 2014 e nasce come settimanale free press. Negli anni a seguire muta spirito e carattere. L’Eco diventa più dinamico, si attesta come web journal, rimanendo ad oggi il punto di riferimento per le notizie della Sibaritide-Pollino.