Questo giorno e quel "maschilismo tossico" che ancora soffoca la figura della donna nella violenza
Oggi è la giornata internazionale della donna. Un momento di riflessione collettiva sul percorso di emancipazione femminile ma anche un'occasione per non dimenticare mai chi è stata vittima di violenza di genere: da Mariarosaria a Fabiana
CORIGLIANO-ROSSANO - Cosa si può dire ancora di questa ricorrenza che non sia già stato detto e ripetuto? Forse nulla, o forse a nulla servono le parole se non vengono comprese e accettate: gli uomini, per secoli, ci hanno remato contro e molti purtroppo, consapevolmente e/o inconsapevolmente, continuano a farlo. Ma i nostri tentativi di ribellione e rivalsa non possono e non devono arrestarsi.
Se si indicono giornate che ricordano e “celebrano” le donne significa che il problema esiste ed è reale. Le due ricorrenze, che tanto animano l'opinione pubblica, sono complementari ma al contempo profondamente diverse.
La prima, l’8 marzo, ricorda le vittime di un disastro per poi giungere a celebrarne il genere (circa 4 miliardi di "meravigliose creature": una narrazione tossica che non ci fa bene!) mentre la seconda, il 25 novembre, sensibilizza sulle morti per mano di uomini legate proprio al genere. Da un lato l'esaltazione del femminile, dall'altra la morte perché si incarna il femminile.
Il problema è evidentemente culturale, esiste un cortocircuito e uno scollamento tra l'idea della donna perpetrata per secoli e le idee di donna che si affermano nel mondo contemporaneo (i fenomeni infatti sono molteplici e sarebbe più corretto parlare di femminismi).
Se spostiamo il nostro sguardo nel tempo e nello spazio la questione apparirà più evidente. La storia si è sviluppata su sistemi retti dal patriarcato e il processo di emancipazione risulta essere un fenomeno piuttosto recente. Ma se anziché muoverci nel tempo ci spostiamo nello spazio raggiungendo altre latitudini ecco che di colpo il passato ritorna. In Medioriente e in molte zone del continente africano la donna vive senza identità, senza diritti, senza futuro. Immaginare quelle vite spezzate da sistemi religiosi e culture oppressive ci sembra, oggi, inaccettabile. Eppure anche noi per secoli abbiamo subìto e vissuto in società di questo tipo dalle quali abbiamo ereditato vecchi e radicati retaggi. Forse il loro “medioevo” deve ancora compiersi (in fondo la loro religione viaggia con sei secoli di ritardo!) ma è necessario velocizzare il processo, a tutte le latitudini. Dobbiamo fare in modo che le culture e i sistemi cambino, che tutte le donne di tutti i paesi del mondo possano dirsi libere di autodeterminarsi.
Ci battiamo e ci batteremo sempre non per la differenza di genere ma per la disparità perché non vogliamo essere come voi ma vogliamo poter diventare chi siamo proprio come voi.
La verità è che non vogliamo tutte diventare ingegnere, ministre, idrauliche o capi di Stato ma vogliamo avere il diritto di accedere a queste cariche e a queste professioni con le stesse, medesime, possibilità che ha un uomo. Vogliamo essere pagate come gli uomini per le stesse mansioni. Vogliamo poter decidere di essere o non essere madri, vogliamo non essere relegate sempre e solo a ruoli di cura e accoglienza, vogliamo non rispondere a canoni estetici e comportamentali imposti. Molti penseranno che sia già così perché esistono donne che ce l'hanno ma, fidatevi, il percorso non è compiuto. Il nostro cammino è spesso tortuoso e forse qualcuna l’avrà pagata cara questa audacia, questa caparbietà, questa perseveranza. Ma non è così che vogliamo arrivarci.
Questa è una battaglia che riguarda tutti e che può trascinare con sé altre lotte. È per gli uomini, perché possano arrendersi al maschilismo tossico che li incatena, per le minoranze, perché possano vivere alla pari acquisendo i diritti che meritano, proprio come le donne, per l'ambiente e per la disumanità dei sistemi produttivi perché la chiave di tutti questi squilibri risiede nel potere e nella sua gestione. Alla base esiste una profonda e radicata affermazione della supremazia di una parte, di un gruppo, sul resto. Le narrazioni che si articolano dietro ciascun fenomeno sfruttano gli stessi meccanismi logico-culturali.
Meccanismi malsani che nei casi più efferati portano all’uccisione delle donne, quasi sempre per mano di un familiare o un amante. In questa giornata il nostro ricordo va a due donne, nostre concittadine, brutalmente uccise da chi diceva di amarle, Maria Rosaria Sessa e Fabiana Luzzi. Entrambe sono state torturate e i loro corpi vessati a causa di uomini che volevano manifestare la loro volontà di dominio e di subordinazione dell'altro sesso. Un comportamento che, come ricordano i centri antiviolenza, «non è frutto di una patologia o di un’anormalità, ma legata, al contrario, alla quotidianità e alla normalità dei rapporti fra uomini e donne nella nostra società».
Concludo con un passo che è una riflessione che parte dal corpo ma incarna quello che fino ad ora è stato e continua ad essere il paradigma che lega uomini e donne:
«Dipingevi una donna nuda, perché ti piaceva guardarla, le mettevi in mano uno specchio e chiamavi il dipinto Vanità, condannando così sul piano morale la donna di cui avevi raffigurato la nudità per tuo piacere. La vera funzione dello specchio era un’altra. Esso serviva a far sì che la donna fosse connivente nel trattare se stessa, innanzi tutto, da veduta» (John Berger, Questioni di sguardi).