Cessía: tra il lentischio, il cisto, le acacie e l’acqua cristallina
Il racconto di un giorno d'estate degli anni sessanta, in un piccolo angolo di paradiso che ricade nel territorio di Mandatoriccio. Un momento prezioso, carico di quella serenità che solo la natura, il cibo condiviso e gli affetti più sinceri sanno regalare

L’estate del 1965 era appena iniziata e portava con sé il giorno più lungo dell’anno e la notte più breve. Le scuole erano terminate da poco ed Emilio era appena rientrato da Rossano a Mandatoriccio, pronto a godersi la quiete di casa insieme alla famiglia.
La sua stanza si trovava al terzo piano: due balconi, uno rivolto a nord, con una vista che toglieva il fiato. Di fronte a lui si apriva l’immensità del Mare Jonio, la vallata dell’Arso, il Vecchierello e i borghi collinari della Sila Greca – Pietrapaola, Calopezzati, Caloveto – fino alla maestosa catena del Pollino con il suo Dolcedorme. A sud, lo sguardo spaziava invece sui tetti della parte nuova del paese, su Cessía e sulla Montagnella, che da sempre sembrava cingere il borgo in un abbraccio silenzioso, caro a ogni mandatoriccese.
Quel giorno il caldo di fine mattinata si faceva sentire, ma l’esposizione della casa, ben arieggiata, attenuava l’afa. Approfittò di quella frescura per concedersi un sonnellino, che non solo gli restituì le energie spese nel viaggio, ma gli risvegliò anche l’appetito, stimolato dai profumi che salivano dalla cucina, a piano terra, dove la madre Francesca era già all’opera per il pranzo, in attesa del ritorno del marito Edoardo dalla segheria.
Era il primo giorno in cui la famiglia si ritrovava al completo dopo tanti mesi. Il padre avrebbe goduto a breve di un periodo di riposo; le sorelle, come lui, avevano concluso l’anno scolastico; la madre, come sempre, era la meno riposata: tra la cura delle proprietà, le faccende domestiche e l’inesauribile impegno in cucina, sembrava non fermarsi mai.
Quando il padre rientrò, la tavola divenne il centro del ritrovo familiare, tra abbracci, racconti e nuovi propositi per l’estate. Si parlò di viaggi in Sila, di giornate da trascorrere al mare, di desideri semplici ma pieni di entusiasmo. Intanto, dalla cucina arrivava un profumo inconfondibile: quello della pasta al forno, ‘a pásta chjína, come solo la madre sapeva prepararla. Tutti si sedettero a tavola per gustare il primo pranzo dell’estate. La teglia di ceramica venne servita con i rigatoni disposti con cura, arricchiti da un sugo generoso, formaggio grattugiato, fette di caciocavallo, salsiccia, polpettine, uova sode. Il tutto era stato infornato fino a ottenere una crosta croccante e dorata. Era talmente buona che tutti fecero il bis, lasciando che il coniglio alla cacciatora, previsto come secondo, restasse da parte, silenzioso e dimenticato: ci sarebbe stato tempo per mangiarlo, magari a cena.
Durante il pranzo si chiacchierò a lungo. Emilio, ormai avviato agli studi tecnici; la sorella maggiore Mary già con la testa a Rossano, dove avrebbe voluto iscriversi al liceo classico, Elisabetta ancora alle prese con gli studi alle scuole elementari. Il pomeriggio scivolò via dolcemente, tra la leggerezza di una giornata ritrovata e la gioia di essere di nuovo insieme.
Era sabato sera. Dopo cena, Emilio decise di uscire per fare una passeggiata. Sperava di incontrare qualche amico con cui scambiare due parole e raccontarsi le esperienze vissute durante l’anno. Girò un po’ per il paese, ma non incontrò nessuno. Il viaggio lo aveva stancato e così, senza insistere, tornò a casa per riposare. La giornata seguente prometteva di essere intensa: la famiglia aveva deciso di fare una scarpinata a Cessía, uno dei luoghi più amati dai mandatoriccesi.
I genitori avevano accolto l’idea con entusiasmo. Poiché si preannunciava una giornata calda, proposero di portare con sé una bella anguria (‘a pallótta) da gustare all’ombra delle acacie. Era una tradizione che si ripeteva quasi ogni estate.
Non fece fatica ad addormentarsi. Anche se i pensieri tornavano alla passeggiata del giorno dopo, il sonno lo colse subito, placando la stanchezza accumulata.
Mandatoriccio, il suo paese natale affacciato sul Mare Jonio, era da sempre circondato da numerose sorgenti d’acqua, tra cui spiccava proprio quella di Cessía. Era ironico pensare che, mentre Emilio stava rievocando con amore quei luoghi ricchi d’acqua, da tempo ormai sui giornali si leggevano notizie della sua assenza. Un paradosso doloroso, frutto forse di mancanza di visione, nonostante gli investimenti e le promesse.
Cessía, per chi non l’aveva mai vista, era un piccolo angolo di paradiso: un ambiente incontaminato dove dominavano lecci (l’úlici), castagni, conifere. Un rifugio naturale, meta ideale per sfuggire alla calura estiva. Il toponimo, secondo alcuni, derivava dal latino caesius, che significa “verdastro”, e in effetti la zona offriva una sorprendente varietà di tonalità di verde. Antichi documenti della Protezione Civile della Calabria parlavano della piana e della sorgente Cesia I, termine che nel tempo potrebbe essersi trasformato in Cessía, e in dialetto Cissía. La zona era nota per le due sorgenti di acqua ferrosa e per un vecchio deposito da cui, negli anni ’50 e ’60, partiva la tubazione del primo acquedotto del paese. Il tutto era incastonato tra le acacie, (‘e piantagióle), come solevano chiamarle in dialetto, che durante la fioritura profumavano l’aria, accompagnate dal sentore fresco della menta spontanea.
Il paesaggio era un continuo fluire di verde e acqua: la macchia mediterranea intervallata da massi e rocce, levigati dal ruscello che scorreva incessante. L’acqua, discendendo dalla montagna in modo tortuoso, formava laghetti naturali – (‘u vallúne ‘e Cissía, ‘u vúllu ‘e Sabbattélla) – dove da bambini andavano a rinfrescarsi nelle giornate più calde. Il gracidare delle rane, il canto dei grilli e delle cicale si mescolavano al rumore dell’acqua, creando un’armonia naturale che sembrava accarezzare ogni cosa.
Non era raro vedere le donne del paese con i cesti pieni di biancheria, intente nel lavaggio rituale accompagnato dai canti e dal loro vociare. Preparavano la liscivia con la cenere bollita nelle caldaie (‘a lissíja ccu cínnara vullúta ‘ntra quarára), poi lavavano i panni con sapone fatto in casa a base di potassio e olio (‘u sapúne ‘e putássu), battendoli sulle rocce e lasciandoli infine asciugare sui cespugli di cisto. Era un lavoro che durava l’intera giornata, ma racchiudeva una sapienza antica. Da lontano si percepiva il ritmare delle operazioni di insaponatura e di risciacquo e la consueta battitura dei panni sulle rocce lambite dall’acqua corrente, dove alla schiuma naturale si univa poi quella del sapone che emanava un particolare e tradizionale profumo.
La mattina seguente, la famiglia si preparò per la gita. Tutti con lo zaino in spalla si incamminarono a piedi verso Cessía. A Emilio, come da tradizione, toccò portare l’anguria da tenere al fresco sotto l’acqua fino al momento giusto.
Arrivati a destinazione, scelsero la migliore postazione: vicino alla fontana, c’era un grande masso piatto che faceva da tavolo naturale per il picnic. Era quasi mezzogiorno. I genitori cominciarono a sistemare il pranzo, mentre Emilio e le sorelle chiacchieravano, osservando i laghetti e la vegetazione circostante. L’acqua scorreva lenta, il vento tra le foglie accompagnava i loro pensieri. Era una calma profonda, di quelle che solo la natura sa offrire. Il richiamo del padre li riportò alla realtà: era ora di mangiare. La madre aveva preparato un vero banchetto: melanzane ripiene (‘e lumingiáne chíjne), patate con peperoni fritti, frittata di pasta, sardella con alici salate, salsiccia, soppressata, prosciutto e formaggio. Il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino, che solitamente beveva solo il padre, e ogni tanto anche Emilio, con moderazione.
Dopo il pranzo, arrivò il momento tanto atteso: il taglio dell’anguria. Il padre cominciò a servirla a fette, e ciascuno la gustava con gioia, dimenticando le buone maniere e lasciando che il succo scorresse sulle guance. Era quel tipo di libertà semplice che appartiene solo ai momenti condivisi all’aperto. A chiudere il pranzo ci pensò un pezzo di crostata alla marmellata di ciliegie, fatta in casa con i frutti della Chiusa.
Nel pomeriggio inoltrato, da lontano cominciarono ad arrivare le voci di altri che salivano a Cessía in cerca di fresco. A quel punto, decisero di rientrare: l’aria si stava rinfrescando e la quiete stava per svanire. La giornata, però, restò impressa nei loro cuori. Avevano trascorso insieme un momento prezioso, carico di quella serenità che solo la natura, il cibo condiviso e gli affetti più sinceri sanno regalare. Durante il tragitto verso casa, ognuno era immerso nei propri pensieri. Ripensavano al tempo trascorso e già speravano di poter rivivere presto un’altra giornata così. Il rientro dalla scampagnata a Cessía fu tranquillo, stanchi ma felici. Il cammino fatto al mattino sembrava ormai lontano, e il ritorno verso casa fu accompagnato da un silenzio disteso, fatto di pensieri e stanchezza buona. La stanchezza del cammino non aveva tolto nulla alla bellezza della giornata: anzi, sembrava averla resa ancora più viva nei ricordi appena nati.
Una volta arrivati, ciascuno si concesse un po’ di riposo. Emilio, steso sul letto, si lasciò cullare dai suoni familiari della casa: il ticchettio dell’orologio a pendolo portato da suo nonno, materno, Giuseppe, dall’America che segnava il tempo come se fosse più lento, più vero, il fruscio del vento tra le persiane, i passi leggeri della madre in cucina già pronta nella preparazione della cena, la sorella maggiore immersa nella lettura e la piccola alle prese con i suoi giochi.
Nel tardo pomeriggio, la famiglia si preparò per andare a trovare i nonni paterni Ciccio e Marianna. Vivevano in una modesta casa nel centro storico, tra via Generale Diaz e via Piave, nella parte nuova del paese. Il nonno li accolse seduto sull’uscio della porta, con il bastone in mano e il cappello calato sugli occhi, come se già sapesse che sarebbero arrivati. A Emilio piaceva molto incontrare i nonni visto che era appena arrivato e aveva il desiderio di andarli a salutare. La nonna, invece, se pure in precarie condizioni di salute stava trafficando in cucina, intenta a impastare pane e a preparare le conserve per l’inverno, mentre il nonno iniziava ad informarsi sull’andamento degli studi sollecitando il nipote verso nuovi e impegnativi traguardi.
Trascorsero la serata, tra chiacchiere leggere e il profumo di caffè che la nonna preparò con la tradizionale moka. Emilio adorava quei momenti. Ogni oggetto in quella casa sembrava raccontare una storia: gli orci in terracotta, le sedie impagliate, il camino annerito dal fumo. Il nonno parlava poco, ma quando lo faceva, le sue parole avevano il peso della saggezza: raccontava di quando l’acqua di Cessía era usata per irrigare gli orti, e di quando più a valle andando verso l’Acquarella alimentava una delle prime postazioni della sua segheria per il taglio del ciocco.
La giornata trascorse tra i racconti dei grandi e il divertimento dei piccoli. La sera, prima di andare via, la nonna mise nelle mani della madre una sporta di stoffa piena di fichi, pomodori secchi e origano che il nonno aveva raccolto állu Mmutíllu, un’altra località proprio vicino Cessía, dove aveva un modesto pezzo di terra coltivato per lo più a orto, nel quale produceva fagiolini (‘e vajanélle), le zucche (‘e cucúzze ccu lli tálli), peperoni, pomodori e le melanzane che facevano da cornice ad un ambiente già di per se meraviglioso. Una località posta più in alto di Cissía, ma raggiungibile da un’impervia mulattiera, molto suggestiva e rigogliosa sotto il profilo vegetativo, per la presenza di arbusti di macchia mediterranea di ogni genere, come il corbezzolo (‘u cacúmmaru), l’erica per ottenere il ciocco, il lentisco (‘u scínu), ma anche erbe aromatiche come l’origano (’u ríganu), la menta (‘a ménta), le more di rovo (amúra ruvétte). Era il modo della nonna di dire “vi voglio bene”.
Nei giorni seguenti, l’estate continuò a srotolarsi lenta, come una pellicola calda e luminosa. Non mancarono altri picnic, altri ritorni a Cessía, con gli zii o con i vicini. Ogni occasione era buona per tornare in quel luogo incantato. Portavano con sé pane casereccio, qualche fetta di formaggio, pomodori raccolti all’alba e immancabilmente l’anguria da raffreddare nel torrente, anche se spesso l’anguria era solo una scusa e l’occasione, invece, come sempre mutava in grandi abbuffate oppure in uno più semplice spuntino a base di sardella con la cipolla nuova e le fresíne condite con olio e sale, il tutto a base di “Condoleo”, vino autoctono locale.
Ogni volta, sembrava che la natura si mostrasse un po’ diversa: una luce nuova tra i rami, un profumo inaspettato, una farfalla mai vista prima. Era sempre una gran festa di famiglia e di gruppo ognuno godeva del proprio momento di libertà all’aria aperta seguito dal consueto scambio di opinioni tra gli adulti, mentre i bambini giocavano nei prati circostanti, sui massi e con l’acqua del ruscello, nel quale numerosa era la presenza di girini e di rane (‘e ranúnchije).
Col passare dei giorni, Emilio cominciò a osservare con occhi nuovi ciò che da bambino dava per scontato: le api che ronzavano tra i fiori di lentisco, le lucertole che correvano sulle pietre calde, il volo basso delle rondini prima del tramonto, il silenzio profondo che avvolgeva la valle quando il sole calava dietro la Montagnella. Quelle estati non insegnavano solo a vivere il tempo, ma a sentirlo. Ogni gesto, ogni sapore, ogni respiro portava con sé qualcosa di più grande: il senso dell’appartenenza, il rispetto per la terra, la gratitudine per ciò che c’è.
E così, giorno dopo giorno, si formavano i ricordi. Non quelli fragili e passeggeri, ma quelli solidi, che restano incastonati nell’anima come pietre in un muro antico. Ricordi fatti di visi familiari, voci che si rincorrono tra le stanze, piatti che non hanno bisogno di parole, sentieri percorsi insieme, e silenzi che sanno più di mille discorsi. Ricordi, come quello vago di un signore, un certo Turúzzu, (Salvatore Longobucco), che di mestiere faceva il sarto e abitava allu Sguígliu, che durante i raduni a Cessía soleva solitamente esibirsi nel canto.
Quando, anni dopo, Emilio avrebbe ripensato a quell’estate del 1965, avrebbe capito che fu una delle più importanti della sua vita. Non perché accadde qualcosa di eccezionale, ma proprio perché fu semplice, piena, vera. Cessía, con la sua acqua limpida e il verde senza tempo, un’oasi di pace e un ambiente naturale dove era possibile avvertire la presenza di numerosi animali quali merli (‘e míarule), ghiandaie, volpi (‘e vúrpi), tassi (‘e milógne), ricci (rízzi), falchi, ghiri (glíri), sarebbe rimasta per sempre nel suo cuore. Non come un luogo da cartolina, ma come un pezzo della sua storia, una radice profonda da cui, ancora oggi, si sente nutrito.
(fonte foto pagina Fb Noi cresciuti negli anni 50 e 60)