Nei centri per l’impiego di Corigliano-Rossano non ci sono più proposte per “reclutare” manodopera in vista della stagione della raccolta
A.A.A. lavoratori cercasi. Appena un anno fa scrivemmo che con l’avvento del Reddito di cittadinanza non si riuscivano a trovare più persone disposte a lavorare come camerieri, colf, commessi, scaffalisti, barman e anche segretari. Ancor più drammatico era il bilancio in agricoltura dove, manodopera straniera a parte (spesso, per fortuna non sempre, sottopagata e sfruttata), non si riuscivano a trovare più persone disposte a lavorare nei campi, negli uliveti o negli agrumeti. La situazione oggi, ad un anno di distanza, non solo non è cambiata ma è addirittura peggiorata. Lo dicono i dati dei Centri per l’impiego. Dove in un anno, complice l’emergenza coronavirus, non solo sono calate le candidature ma anche le richieste di lavoro. E questo in quasi tutti i campi. Unica eccezione, per Corigliano-Rossano, la fa un’azienda subappaltatrice di Enel, impegnata nello smantellamento dei gruppi produzione della centrala di Cutura-Sant’Irene, che ha richiesto agli uffici di collocamento una serie di figure professionali. E per l’agricoltura? Né ne vanno, né ne vengono, utilizzando un gergo dialettale. Infatti, sono pochissime le posizioni aperte per l’agricoltura. Ce n’è qualcuna nel CI di Corigliano per una decina di braccianti, a Rossano, invece, per quello che abbiamo avuto modo di apprendere non c’è nulla. Una tabula rasa che stride, invece, con la richiesta incessante di lavoro che si sta organizzando per l’ormai imminente stazione olivicola e agrumicola. Il paradosso è notevole e ha un perché. La manodopera maggiore nei campi della Sibaritide è rappresentata da persone asiatiche o dell’est Europa. Tutta gente che, nella primavera scorsa, una volta conclusa la campagna di raccolta è rientrata in patria e oggi non può più ritornare per via dell’emergenza Covid. E questo ha creato un vuoto, difficile da colmare. Poi, a giocare contro il “sistema” sono le “trappole” messe in piedi dal sistema stesso: il reddito di cittadinanza e il costo del lavoro troppo alto. Entrambi interlacciati tra loro. Il primo dà la possibilità ai percettori di incassare una mensilità senza fare nulla, l’altro mette nelle condizioni i datori di lavoro di andare sul nero. Già, perché le cose vanno dette senza ipocrisia: gli italiani non vogliono più lavorare nei campi per raccogliere olive e agrumi. Siamo diventati tutti vagabondi? No, semplicemente c’è una sperequazione tra il mondo legale e quello reale. Se andiamo a vedere, legge alla mano, un bracciante agricolo per una giornata lavorativa dovrebbe avere una diaria di 80 euro, più i contributi. Ma come fanno le imprese agricole ad essere competitive, se in Italia arriva una quantità esorbitante di prodotti ortofrutticoli a prezzi stracciati? Come fanno ad essere competitive se nei Paesi che esportano in Italia ortofrutta il costo del lavoro agricolo è venti volte inferiore al costo del lavoro agricolo italiano? Ecco le contraddizioni e le trappole del sistema. Lo Stato da un lato spende soldi per rimpinguare il fondo del reddito di cittadinanza, producendo disoccupati a dismisura; dall’altro non trova risorse per incentivare l’impresa e abbassare il costo del lavoro, favorendo di fatto il lavoro nero. Piaccia o non piaccia ma è così. Non si vuole togliere il reddito di cittadinanza che, oggi, sta diventando sempre più un reddito di dignità? Benissimo. Che si utilizzino, allora, i fondi europei – quelli che ogni anno mandiamo indietro a vagonate - pagando con questi i due terzi della retribuzione che spetta ad ogni operaio agricolo. Senza lagnanze ma solo guardando in faccia la realtà. Una volta finita la parentesi del Reddito di Cittadinanza (perché finirà) e le imprese saranno distrutte, cosa resterà? Nulla. Solo la vecchia e cara valigia di plastica (quella di cartone è superata) per andar via e non tornare mai più.