Di parole, silenzi e memorie
Le nostre case hanno bisogno di animarsi di parole che accolgono e tengono insieme
Daniel Taylor dice che ognuno di noi è il prodotto delle storie che ha ascoltato, vissuto. O anche di quelle che non ha vissuto. Penso sia proprio così.
Una delle mie figure di forte riferimento affettivo e formativo è stata una zia che aveva un grande dono, tra gli altri: aveva sempre qualcosa da raccontare!
Non perché avesse una vita chissà quanto rocambolesca o avventurosa. Pure, magari, in alcuni suoi anni di gioventù che ogni tanto riuscivamo a farle rispolverare. Ma credo che, almeno nell’età matura, la sua sia stata una dimensione abbastanza statica; e tuttavia riusciva a fare ruotare il mondo delle sue relazioni (grande o piccolo che fosse, e comunque sempre pronto ad accogliere nuovi ingressi) attorno al suo salotto di casa: sui divani verdi intorno ai camini, d’inverno; tra i profumi di zagara e il fucsia della bouganville d’estate.
Là tutti abbiamo sempre saputo, sentito, di essere in ogni momento i benvenuti e che alla sua tavola c’era sempre quel posto in più proprio per noi! Quella stessa tavola che ogni domenica riuniva tutta la famiglia, disposta per generazioni, le cui distanze si sono andate via via assottigliando, fino a percepirle annullate, una volta divenuti tutti adulti.
Non ho di tutto ricordi precisi, ovviamente (né sarebbe la sede), ma conservo sulla pelle il sapore dei ritmi lenti. Era il tempo delle narrazioni a scandire quelle ore, di cui noi piccoli ci nutrivamo un po’ di striscio, tra burle, scherzi e magari anche qualche sbuffo. Ma intanto le parole abitavano la stanza, circolavano, si accendevano, si spegnevano, rotolavano tra risate per quell’aneddoto divenuto leggendario; sdegno o preoccupazione per qualche evento di politica nazionale; compartecipazione emotiva ai dolori altrui; soddisfazione e gioia per qualche bel risultato conseguito…
Al centro di tutto la narrazione. Agita e ascoltata.
Che meraviglia… mentre lo scrivo, pur a pochi anni di distanza, penso sia già un altro mondo!
Le cose che più ricordo con diletto sono le inezie che lei trasformava in cose degne di narrazione: irrilevanti alla percezione dei più, altrimenti relegate nei fatidici silenzi sterili dei nostri presenti, si trasformavano con lei in materia fertile per continuare a raccontare.
Perché l’importante è proprio questo: parlare. Parlarsi.
Le parole hanno una grande potenza: possono consolare, intrattenere, divertire, stimolare, ammonire, insegnare, ricordare. Ma principalmente, le parole tengono insieme.
Non è forse questo, al di là di ogni altro valore, il senso della parola simbolica (syn bàllein, unire)?
Di tutt’altro tipo, e mai entrata, per fortuna, nelle nostre case, la parola “diabolica” (da dia-bállein, dividere) quella che divide, separa, allontana, crea risentimento, genera pettegolezzo o malanimo.
Ma anche i silenzi sono dia-bolici.
Quanti silenzi dividono, separano, allontanano, creano risentimento? Rimbombano tra muri incrollabili di incomunicabilità. Si siedono, ingombranti, ad occupare lo spazio che proibisce l’abbraccio tra due persone che si sono amate; che magari ancora si amano, ma non lo sanno dire, perché non sanno scalare quei blocchi di afasia emotiva che spesso si mascherano di indifferenza, apatia, odio –addirittura- alle volte.
Credo che tante case avrebbero bisogno di riempirsi di parole; tante tavole tornare ad animarsi con voci capaci di dare senso e significato al reale, di ammorbidire spigoli, di riempire l’anima, di tenere insieme.
Non serve avere grandi cose da raccontare. Ogni inezia, banale, piccola o insignificante che ci sembri, è l’argomento giusto per abitare le parole. Perché le parole ci fanno sentire bene, ci mettono a nostro agio. Accolgono. Parola di zia Titina!