di MARTINA FORCINITI Un naufragio dirigenziale e del modello cooperativo inevitabile e irreparabile, data la sua impostazione totalmente pubblica e un suo utilizzo inteso alla stregua di un carrozzone di posti pubblici gestito direttamente dalla politica. Torniamo a parlare dell’
elaiopolio – la struttura di proprietà dell’Arssa (l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e i Servizi in Agricoltura) situata all’ingresso della città – perché una storia di ordinario fallimento necessita di analisi lucide e approfondite. Soprattutto ora che le campagne elettorali cominciano a partorire i loro frutti comunicativi. E su questo scheletro di cemento, pagato diversi miliardi di vecchie lire, non si batte neppure un colpo. Quello che sarebbe potuto diventare un centro unico nel suo genere – oggi, suo malgrado, un indegno ricettacolo di degrado e balordi – è piuttosto l’immagine simbolo dell’incapacità calabra. Di una classe dirigente che una volta di più non ha mancato di mostrarsi nella sua autoreferenzialità. Quella che, per intenderci, è disposta a cambiare tutto purché nulla cambi. Lavorando per conservare le cose come stanno. Sfruttando, questo sì, la propria posizione di dominio. Così
di quei diecimila metri quadri di potenziale innovazione, dove si sarebbero dovute convogliare tutte le produzioni olearie del territorio, generando, trasformando e commercializzando il prodotto sotto un unico brand, non ci resta che il miraggio di una sana economia da sviluppare attraverso l’oro verde di Calabria. È l’ennesima pietra dello scandalo, una lettera morta che pure avrebbe originato un guadagno formidabile, nella misura in cui si sarebbe prodotto non solo reddito esterno derivato dalla trasformazione di produzioni fuori regione (e che oggi rappresenta
uno dei maggiori insuccessi calabresi con 200mila ettari ulivetati), ma anche reddito indiretto derivante dalla riconoscibilità del nostro extravergine. Eccolo qui il nostro ecomostro, un cantiere rimasto a marcire sin dagli anni ’80 in attesa che qualcuno ne riconvertisse la destinazione d’uso iniziale (imbottigliamento e stoccaggio degli oli), riprendendo in mano il progetto di quella che, probabilmente, è la madre di tutte le opere compiute ma rimaste inutilizzate.
Perché mai come in questo caso ha vinto l’indolenza non solo di chi, dopo essersi accomodato alla tavola dell’appalto gonfiato, ha piantato capra e cavoli. Ma anche di tutti coloro che, ereditando passivamente il progetto, hanno perso l’ennesima buona occasione per riacquistare un minimo di credibilità istituzionale. Opere, ma anche scelte, incomplete. Una condizione – lo si può immaginare – difficilmente rimediabile. E di certo non con un semplice schioccar di frusta. Ma le elezioni sono un grande spettacolo d’arte varia, con i candidati pronti a mettere a punto le loro “macchine da guerra” delle comunali per essere con-vincenti. Finora, dicevamo, quasi nessun accenno all’elaiopolio negli ululati programmi elettorali. Chissà che qualcuno, in zona Cesarini, non si ricordi di questa carcassa fatiscente su cui sbattiamo la faccia ogni giorno. Che irrompe in modo imbarazzante – e purtroppo ancora ingiustificato – nel profilo della città.