Antonio Toscano, il coriglianese Eroe di Vigliena
Ecco la prima parte prima della biografia dedicata a "Il Toscano negli scritti di G. Amato e L. Ripoli in una gloriosa pagina di storia" scritta dallo storico Carlino
Dato per certo, come comunemente è riportato, che Antonio Toscano nacque a Corigliano, il 22 gennaio 1777, da Pasquale e da Geltrude Passavanti, vediamo qui di seguito un profilo della sua figura, che porta alla nostra attenzione la vita e le vicende storiche dell’Eroe di Vigliena, estrapolato dalle belle pagine dell’opera di Giuseppe Amato il quale ricorrendo anche a documenti originali di Carlo Morgia, memorie di Guglielmo Pepe e del Botta così narrava: «[…] Rimasto orfano di padre, fu con ogni cura educato dalla virtuosa sua genitrice, e fu vestito da prete, che al sacerdozio lo volea la madre avviare. Fu affidato alle cure del dotto Luigi Rossi da Palma, allora Governatore per parte del duca Saluzzo. In Corigliano, celebre poeta ed efferato repubblicano. Rossi visto, che il giovanetto Antonio, abborriva il regime feudale della sua patria, come l’abborriva il padre Pasquale, svolse in quell’animo vergine, potentemente il sentimento dell’indipendenza e della Libertà, ed educandolo a forti e santi principii, in breve vide crescerlo fiero repubblicano. Morta la madre Geltrude, ed il Rossi andato via da Corigliano, il fratello maggiore Alessandro, a cui non talentava il predominante sentimento del giovanetto Antonio, per deviarlo, e per compire la sua istruzione, lo menò in Cosenza. Giunto colà il nostro Eroe trovò maggior fomento alle sue idee, ed in breve legossi in amicizia col Salfi, il quale presto l’ammise nella società di Jerocades e di altri patriotti della nobilissima Cosenza, ed andò man mano a vieppiù infiammarsi ai discorsi di quegli illustri uomini, in modo che, pose in non cale lo studio, e sempre meditava come sollevare la patria; ed ecco perché meditabondo percorreva le vie della Patria di Telesio, e formava la desolazione del fratello. Alessandro (1) 1. Nei rivolgimenti del 1799 all’insaputa del fratello, com’era vestito, cioè da prete, partì con molti alla volta di Napoli; ed ecco perché il Pepe, il Colletta ed il Coco lo chiamano Giovane Prete di Cosenza. Giunto nella Capitale fu nominato dal Comitato Centrale, capo della Legione Calabra, che presidiare dovea il forte di Vigliena, o Viviena come vuole il Botta – Era quel forte posto di rimpetto al ponte della Maddalena, per dove il cardinale Ruffo dovea passare, per recarsi ed entrare in Napoli, e per tale ragione su questo forte, che impediva al Porporato il passaggio, Ruffo rivolse le sue mire, e vi mandò compagnie Calabre per assaltarlo e renderlo muto. Si vide allora una strage fratricida ed il Toscano con i suoi valorosi compagni in numero di 150, respinse, con molta perdita d’ambo le parti, i Sanfedisti. Indispettito il Ruffo, mandò all’assalto di Vigliena scelte compagnie, due Battaglioni regolari, alcune centinaia di Russi e molte bocche di fuoco, ma il Toscano e la Calabra Legione, punto si spaventò, perché dal vivere al morire, quando si difende un santo principio, non passa divario alcuno, e per ciò furono ributtate le proposte di resa, e si continuò a pugnare».
«Ma – continua l’Amato nella sua puntuale narrazione – facciamo parlare Guglielmo Pepe, testimonio, quasi oculare, di questo memorabile fatto, il quale nelle sue memorie (1) 2, così lo descrive: "I difensori di Vigliena, benché ridotti a 60 continuarono a combattere gagliardamente, asserragliati in un angolo del forte. Il loro numero ivi scemando ad ogni istante, il Toscano, capo del Presidio, Giovane Prete di Cosenza, gravemente ferito in testa, perché Egli ed i suoi compagni non rimanessero inulti trascinandosi fino alle polveri vi appiccò fuoco impavido. All’orrendo scoppio saltarono i cadaveri dei vinti confusi con quei dei vincitori in numero di parecchie centinaia. Uno del Presidio, per nome Fabiani, accortosi del disegno del Toscano, mentre questi approssimavasi alle polveri, buttossi in mare, e nuotando andò a ricoverarsi nel Castello nuovo, ove raccontò i particolari del fiero caso”. Il Botta descrive l’assalto, la rovina del forte, l’Eroica morte del Toscano e compagni in tale maniera (2)».
«La Legione Calabra parte stanziava in Napoli, parte presidiava il Castello di Viviena, per cui il Ruffo dovea passare, per venire a dar l’assalto alla città dal lato del ponte della maddalena. Si risolverono i Repubblicani a morire da uomini forti, Spartani voleano essere, Spartani furono, ma gli Spartani aveano uno stato, una patria, ed Essi non aveano né l’uno, né l’altra. Perciò perirono senza frutto, in ciò molto più d’ammirarsi, che gli Spartani non furono, perché erano sicuri, che quella invitta virtù non solamente sarebbe proseguita con lode nel loro paese, ma ancora v’avrebbe incontrato biasimo. Udissi tutto ad un tratto nella spaventata Napoli un rumore, come tuono, tremò la terra, pure il Vesuvio non buttava, veniva dal forte di Viviena. L’avea il cardinale con tutte le forze assalito: vi si difendevano i Calabresi non come uomini, ma come leoni. Pure i Regi combattendo da tutte le parti con l’artiglieria l’aveano smantellato, e non una, ma più brecce, o piuttosto una rovina di tutte le mura apriva l’adito ai vincitori. Entravano a forza ed a furia: gente disperata ammazzava gente disperata; non solo i vinti perivano. Nessuno si arrende, tutti furono morti: date, a chi li uccideva, innumerevoli morti. Restavano una mano di pochi, la rabbia li trasportava; feriti, ferivano; minacciati, ferivano; ammoniti di arrendersi, ferivano. Pure l’estrema ora giungeva. Anteponendo la morte del soldato alla morte del reo, abborrendo il loro animo di venire in forza di coloro, che, con tanta rabbia, odiavano, un Antonio Toscano, che li comandava, e che già stava col mal di morte per le ferite, e pel sangue sparso, strascinossi a stento e carpone al magazzeno delle polveri, e con uno stoppaccio acceso, postovi fuoco, mandò vincitori, vinti e rovinate mura all’aria. Atto veramente degno di eterna memoria nei secoli. […] Quietatosi le cose del Regno, Alessandro Toscano, fratello di Antonio, venduti i suoi beni in Corigliano, stabilì dimora in Napoli, ed ivi aprì famiglia, […]»3.
Alessandro dopo la morte del fratello Antonio sprofondò interiormente in una forte tristezza. Un atteggiamento di malumore lo penetrava tanto da essere sempre molto spento e abbattuto e difficilmente intendeva parlare del fratello. Questo suo comportamento spesso non era compreso nemmeno da chi le stava vicino, anche se furono quasi tutti concordi nell’attribuirne la causa proprio ai metodi terroristici condotti dall’allora governo borbonico, alle sue intimidazioni, alla sua crudeltà e tirannia.
È compito del documentarista fornire più notizie possibili, pertanto, alla narrazione dell’Amato faccio seguire anche quella che propone il Ripoli in modo che il lettore possa avere un quadro più compiuto dell’evento di Vigliena, poiché ciò che colpisce, seguendo il dipanarsi dell’argomento, anche sulla vicenda di Vigliena emerge la presenza di una sostanziale differenza di pensiero tra i due autori.
In rapporto così il Ripoli amava scrivere. «[…] Fra quei Calabresi spiccavano per casato illustre e per le precedenti personali azioni Girolamo Arcòvito di Reggio, Gregorio Muscari di Sant’Eufemia, Antonio Toscano, il glorioso cosentino, di cui dirò, e Bonaventura Labonia, del quale Rossano può andare superba per averla rappresentata nel più grande avvenimento fra quanti se ne svolsero durante le vicende del nazionale Risorgimento. […] Muovendo da Portici verso Napoli s’incontrava il forte Vigliena, piccolo baluardo destinato a guardia più che a difesa della riva. In esso erasi ridotto un distaccamento della Legione Calabra, un centinaio e mezzo appena scelti fra quei cacciatori che la componevano, con a capo il prete Antonio Toscano, mentre per il resto di essa Legione vigilava per le vie di Napoli allo scopo di prevenire le possibili insidie dei congiurati reazionari. Fu quel drappello che, fedele al programma sintetizzato in quelle tre parole del vessillo, stabilì il disperato proposito di dar fuoco alla polveriera del forte e perire con esso, anziché farlo cadere in potere nemico. […]»
Ed ancora il Ripoli, riprendendo sulla vicenda l’esposizione del Morisani così riporta: «Lontano da questa lotta estrema e disperata, giaceva coverto di ferite il comandante, del forte l’Abbate Toscano di Cosenza, aspettando che qualcuno fosse andato a finirlo. Al colmo della disperazione, certi della loro inevitabile rovina s’accostarono a lui don Bernardo Pontari di Reggio, ed un Martelli e gli dissero: Tutto è perduto, finiamo da eroi. Gli occhi semispenti del vecchio scintillarono rianimati, egli avea compreso il senso di quel disperato consiglio, s’accosta ad una porticina aperta, e sulla polvere ammonticchiata vi scarica una pistola. Un nembo densissimo di fumo nasconde agli occhi di tutti quel punto nero, ove la più ostinata lotta si consumava. Succede uno scroscio terribile come il ruggito d’un vulcano, e in mezzo a quelle strisce di fuoco che s’elevano per l’aria si vedono armi, pietre, e membra umane orribilmente mutilate… testimone ed avanzi di quella lotta sanguinosa, fratricida, feroce»4.
BIBLIOGRAFIA
G. AMATO, Crono-istoria di Corigliano Calabro, Arnaldo Forni Editore, Tipografia del Popolano, Corigliano Calabro 1884. [(1) Da un manoscritto del dotto Carlo Morgia].
2 Ibidem [(1) Memoria Capo 3. Parag. 33 – (2) Storia Lib. 18 Cap. 8].
3 Ibidem
4 L. RIPOLI, Rossano pel riscatto nazionale – Ricerche storiche sulle vicende politiche dal 1794 al 1870, Parte Prima, 1794-1840, Guido Editore, Rossano 1989.