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Se lo Stato non crede alle vittime di violenza... ecco la vittimizzazione secondaria

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CORIGLIANO-ROSSANO - Si è svolto ieri nella Sala Rossa di Palazzo San Bernardino, nel centro storico di Rossano, il seminario formativo promosso dall’Associazione Mondiversi ets dal titolo “Vittimizzazione secondaria: modalità operative di prevenzione”. Al convegno erano presenti la dottoressa in giurisprudenza Francesca Salimbeni, il Procuratore della Repubblica di Tivoli Francesco Menditto, l’assistente sociale e responsabile casa rifugio libere donne Barbara Lavorato, il Procuratore della Repubblica di Castrovillari Alessandro D’Alessio, la direttrice del Pronto Soccorso di Corigliano-Rossano Maria Valenti, il tenente colonello Marco Gianluca Filippi e l’avvocato Stefania Figliuzzi.

«Generalmente si parla di vittimizzazione secondaria – riporta il Libro bianco per la formazione: a cura del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica - quando le vittime di crimini subiscono una seconda “vittimizzazione”, cioè una seconda aggressione, che le rende di nuovo vittime, da parte delle istituzioni. Questa seconda aggressione può essere operata anche da rappresentanti delle Istituzioni, ad esempio da figure sanitarie, polizia, avvocati e della magistratura (che possono non credere alla versione della vittima e accusarla di avere provocato l’aggressione). Anche i mass media possono causare una “vittimizzazione secondaria”, per esempio pubblicando la foto e il nome della vittima, esponendola all’opinione pubblica senza nessuna etica, oppure insinuando che la denuncia sia una calunnia senza attendere il verdetto del tribunale».

A restituire un quadro esaustivo del fenomeno della vittimizzazione secondaria in fase processuale è stata la dottoressa Francesca Salimbeni che è partita da un dato emblematico: l’85% delle donne vittime di violenza non denuncia.

Una percentuale elevata, intimamente legata alla paura di non essere credute, di essere colpevolizzate e non tutelate. Paura, che ha conseguenze pregiudizievoli sia nei processi civili che penali. Nonostante il massiccio intervento legislativo, infatti, si verificano gravi lacune nella prassi e nell’attuazione delle leggi. A tal proposito, il Rapporto del Grevio del 2020, sullo stato di applicazione in Italia della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ha posto la questione esprimendo preoccupazione rispetto ad alcune prassi applicative che vittimizzano ulteriormente la donna contribuendo ad alimentare il ciclo di violenza e rendendo difficoltosa la fuoriuscita della stessa dalla condizione di vittima.

Il punto centrale – secondo Salimbeni – sta nel trattare queste denunce, non già come denunce ordinarie bensì come denunce che necessitano di uno sguardo differente, possibile solo attraverso l’utilizzo di una lente che guarda al fenomeno come ad un fenomeno di genere. Cruciale, in questi casi, è la buona formazione degli operatori e di tutti coloro i quali intervengono nel supportare ed accompagnare la donna nel percorso di emancipazione e fuoriuscita dalla spirale di violenza.

Tra le forme di vittimizzazione secondaria in fase processuale troviamo sicuramente il mancato riconoscimento del reato di maltrattamento che spesso viene derubricato a mero conflitto di coppia. Questa errata valutazione, che risulta non penalmente rilevante, alimenta il fenomeno della vittimizzazione secondaria e induce le donne a non denunciare. Stesso discorso vale per il reato di violenza sessuale. Qui il focus si sposta dalla condotta dell’uomo, autore del reato, al comportamento e alla reazione della donna vittima. In questi casi è utile porre l’accento su come viene accertato il mancato consenso e la reazione della vittima. Anche se le fonti internazionali vietano la formulazione di alcune domande del tipo “Come era vestita? Lo ha provocato? Come ha reagito?” – spiega Salimbeni - queste vengono ancora utilizzate per accertare il reato. Il silenzio, ad esempio, dovrebbe essere riconosciuto come forma di tacito dissenso poiché le reazioni della vittima possono essere molteplici e contemplano anche il cosiddetto “freezing”, una particolare risposta alla paura che si manifesta attraverso «bradicardia e immobilizzazione».

E ancora. Un'altra questione importante, ribadita anche dall’assistente sociale Barbara Lavorato, riguarda il problema del mancato affidamento dei minori. Spesso la donna viene definita non idonea ad esercitare la genitorialità poiché non ha sottratto tempestivamente i figli al contesto di violenza. A prevalere, in questi casi, è l’interesse del minore che, però, dovrebbe guardare principalmente all’integrità psicofisica delle vittime e non già alle tempistiche o alla bigenitorialità, e dunque al diritto del padre ad esercitare la genitorialità. Per i figli, vittime al pari delle madri, sarebbe maggiormente dannosa l’esposizione al modello negativo del padre violento. 

Uno degli strumenti procedimentali che potrebbe risultare utile al fine di limitare i rischi di vittimizzazione secondaria, anche perché velocizzerebbe i tempi processuali, è l’incidente probatorio. Questo strumento – ha confermato il procuratore della Repubblica di Tivoli Francesco Menditto - consente l'anticipazione della formazione della prova, in contraddittorio e nella fase delle indagini preliminari, cristallizzando le dichiarazioni della persona offesa e rendendole utilizzabili in dibattimento. Questa dichiarazione, valida in fase dibattimentale, limita la possibilità di ritrattamenti, remissioni di querela e di rivere il trauma del ricordo della violenza. Tuttavia, nonostante la sua concreta utilità, non viene abitualmente disposto, essendo rimesso alla discrezionalità del Pubblico Ministero. A ciò si aggiunge la valutazione dell’applicazione delle misure cautelari per evitare le probabili recidive e sul post condanna, la valutazione concreta dell’applicazione delle misure di prevenzione.

A fare la differenza, in questi casi, sono le reti di supporto: Cav (Centri antiviolenza), le figure professionali e i familiari che, se adeguante fomati, possono accompagnare le donne e i minori nel percorso di fuoriuscita dal ciclo di violenza.

In conclusione, dunque, nei confronti di prassi di questo tipo – si legge in un commento al Rapporto del Grevio - appare  necessaria una maggiore comprensione del fenomeno della violenza contro le donne tra le figure professionali che se ne occupano; una diffusa consapevolezza che purtroppo manca anche a causa di scelte politico-legislative volte più che altro ad un (inutile) inasprimento sanzionatorio di reati come quello di maltrattamenti in famiglia e di violenza sessuale, piuttosto che alla promozione di un pensiero sensibile alle tematiche di genere che renda i giuristi consapevoli della “natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, […riconoscendo] altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.

Rita Rizzuti
Autore: Rita Rizzuti

Nata nel 1994, laureata in Scienze Filosofiche, ho studiato Editoria e Marketing Digitale. Amo leggere e tutto ciò che riguarda la parola e il linguaggio. Le profonde questioni umane mi affascinano e mi tormentano. Difendo sempre le mie idee.