Ponti di vite tra Albania e Calabria: a Sibari la seconda edizione del Vinitaly che unisce
Dopo secoli, queste comunità arbëreshe nella loro diversità sono simboli coraggiosi di resilienza e coesistenza, di fedeltà plurale, di un dialogo continuo tra mondi che il Mediterraneo - diciamolo - non ha mai davvero separato

SIBARI - Visto dall’alto - e con "alto" intendo un punto di vista che non sia solo fisico - il Parco Archeologico di Sibari guidato dal saggio Filippo Demma, valorizzato dal Vinitaly and the City, svoltosi dal 18 al 20 luglio, ha l’aspetto di un organismo antico, armonioso e vivo. L’allestimento è geometrico, ben ordinato. La gente si muove come particelle dentro un campo d’intensa energia. Succede una cosa curiosa: la bellezza - quella vera, quella dei luoghi e delle persone genera un effetto domino. La bellezza in certe condizioni riesce ad riequilibrare le relazioni umane, rendere più sereni i rapporti tra le persone e, perché no, perfino tra gli Stati.
Il Vinitaly a Sibari è stato un caleidoscopio multicolore. Variato, complesso, bellissimo. Tralascio qui - con fatica, lo ammetto - la lode doverosa alla gestione impeccabile dell’Arsac, all’efficienza scenica dei GAL, alla ricchezza delle cantine calabresi e delle presenze nazionali distribuite lungo i perimetri esterni. Tralascio anche l’area della mixology, il Social Garden, la presenza della "tenda oleoteca" con assaggi condotti da divulgatori esperti di olio EVO e del territorio, il DJ Set e la cucina di quegli chef tanto amati, come Enzo Barbieri, o Campana con la sua pizza soleggiata dal semplice pomodoro impigliato da ciuffetti d’origano, Giuseppe Cofone del Gran Caffè Ariston di Corigliano con i suoi iconici panettoni e gelati o le ricette luminose e intense della star di MasterChef, Federica Di Lieto, cosentina, col fuoco sacro della creatività in cucina.
Ci sarebbero molte cose su cui potrei soffermarmi, il parterre istituzionale nutrito, con la presenza del ministro dell'agricoltura Francesco Lollobrigida, il Presidente della Regione Roberto Occhiuto, e tanti altri assessori regionali, Fulvia Caligiuri, direttore generale Arsac, rappresentanti di Verona Fiere, le autorità locali in prima fila, il protocollo che scorre come un fiume ben arginato – ma scelgo consapevolmente di non farlo.
Scelgo invece di concentrarmi – quasi di indugiare – sulla presenza, significativa e per nulla scontata, di Anila Denaj, Ministro dell’Agricoltura della Repubblica d’Albania. Perché in quella presenza, insieme diplomatica e profondamente umana, c’è qualcosa che va oltre la forma: il segnale chiaro di un ponte, di una relazione che non è più solo geografica o storica, ma viva, dialogante, attuale.
Una collettiva delle cantine albanesi più rappresentative si è inserita nel tessuto dell’evento con naturalezza grazie alla qualità indiscussa dei loro vini prodotti in gran parte da vitigni autoctoni, specchio fedele di una tradizione enologica che oggi guarda al futuro valorizzando la loro grande ricchezza ampelografica. Se in Calabria i vitigni autoctoni come il Gaglioppo, il Magliocco, il Greco nero, il Mantonico o il Pecorello hanno trovato una certa definizione e riconoscibilità all’interno delle DOC (come Terre di Cosenza o Cirò), in Albania il lavoro di riscoperta è ancora in atto: varietà come Kallmet, Shesh, Vlosh, Pules stanno uscendo ora dall’ombra grazie a giovani cantine e politiche di tutela. L’Albania e la Calabria custodiscono un patrimonio ampelografico senza eguali al mondo, frutto di secoli di isolamento, adattamento e selezione naturale. In Calabria, la vite ha conservato i suoi tratti arcaici grazie alla resistenza delle zone interne. In Albania, le varietà sono sopravvissute nonostante la dominazione ottomana e al periodo socialista, quando la qualità fu sacrificata a favore della quantità.
Sabato sera, dal palco centrale, è stato possibile ascoltare la voce - finalmente, pubblicamente, politicamente - di una nazione che sta dall’altra parte del mare, ma che in Calabria ha radici antichissime: gli arbëreshë, che sono una diaspora ma anche un innesto. Un popolo innestato nel Sud come una vite resistente. Arricchiscono la nostra regione d’una lingua, una memoria e una cultura che non si sono mai sradicate. A dare forma e contesto a questo legame è stato il talk: “Albania e Calabria: ponti di vite nel Mediterraneo”. E in quel talk, tra gli interventi del ministro Denaj, del nuovo console d'Albania in Calabria Anna Madeo, degli esperti, come Barbara Fasano del Consorzio di Tutela Terre di Cosenza DOP, e degli arbëreshë presenti, come la produttrice Rosella Stamati dell’omonima cantina platacese, è diventato evidente che il Mediterraneo non è una frattura. È una pellicola osmotica. Una membrana viva.
Come ha ricordato il visionario sindaco di Vaccarizzo Albanese, Antonio Pomillo, questo legame non è solo storico, ma attuale, reciproco, attivo. Vaccarizzo, a differenza di molti altri comuni arbëreshë, coltiva un rapporto vivo con l’Albania proprio attraverso il vino: col concorso Vini Arbëreshë arrivato alla ventesima edizione, e con la partecipazione al più importante festival del vino albanese che si svolge ogni anno a Berat. Un gemellaggio “enologico” che è in realtà profondamente politico: non fatto solo di delegazioni e saluti, ma di bottiglie, sapori, ed amicizia.
In Calabria questa alta capacità d’accoglienza e del riconoscere “l’altro come parte del proprio sangue” non è solo retorica: è biografia di tanti che come me sono rimasto sedotto dalla bellezza di questa terra. Ha poi senso dire che il vino calabrese porta con sé - in certe località arbëreshe - non solo il terroir, ma anche una lingua. Un alfabeto di gesti, canti, e saggezze orali che sopravvive in ogni sorso.
In questa linea si inserisce il discorso dell’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo - instancabile e, va detto, ubiquo - che ha sottolineato un tema cruciale: la stima di sé, quel valore politico profondo di cui parlava Fukuyama. Non basta produrre: bisogna riconoscersi il valore. E questa stima - che cresce solo in contesti dove la gente si sente ascoltata, capita può innescare il ritorno alla terra. Ma anche alla comunità. Alla consapevolezza. A quella lentezza fertile che si oppone alle ore trascorse nella metropolitana affollata della vita urbana, a vivere il tempo invece che consumarlo.
In questa prospettiva, in controluce a tutto ciò che Vinitaly a Sibari è stato, possiamo riconoscere con una certa nettezza - e con quella gratitudine che raramente trova forma nei comunicati stampa - la mente e l’anima che hanno reso possibile tutto questo: l’assessore Gianluca Gallo.
Non solo un promotore instancabile della filiera agricola e agroalimentare. Non solo un tecnico competente con una visione strategica: un politico capace di trasformare una manifestazione in un gesto simbolico. In una forma di cura.
Il Vinitaly in Calabria, sotto la sua guida, è diventato una cosa seria. Autorevole, coerente e soprattutto, profondamente radicata. Un’idea di nobile purezza - e questa espressione non è retorica, è tecnicamente precisa - capace di nobilitare non solo il comparto vitivinicolo, ma tutta la regione.
Inserisco un dettaglio: la delega alle minoranze linguistiche. È attraverso questo segmento apparentemente periferico della politica che l’assessore Gallo ha fatto qualcosa di più che organizzare: ha dato spazio. Riconoscimento. Rilevanza. Anche alle comunità arbëreshë. Alla loro lingua. Alla loro presenza secolare. Alla loro capacità di essere - oggi più che mai - un modello di identità plurale che non si dissolve, ma si rinnova.
È anche grazie al suo lavoro se oggi, in Calabria, le comunità arbëreshe - che parlano un albanese arcaico tramandato con la testardaggine di chi sa di essere ponte e non relitto, che celebrano la liturgia bizantina con incensi e icone che ci ricordano Costantinopoli - non sono folclore ma risorsa. Gli arbëreshë non arrivano tutti dall’attuale Albania. Sono popolazioni albanofone che provengono da un’area ben più vasta: l’Epiro ottomano, le coste ioniche, i Balcani meridionali, nel pieno di quella diaspora che seguì l’avanzata turca nel XV secolo — un esodo lungo e doloroso che ha lasciato tracce nella lingua, nei riti, nei nomi dei luoghi.
È anche per questo che San Demetrio Corone porta nel nome un’eco lontana: Korone, località della Messenia, affacciata sul versante più quieto e marginale del Peloponneso. E Santa Sofia d’Epiro rimanda ad una regione che è già in sé una soglia: l’Epiro, terra di confine tra Grecia e Albania, ma con un nome che trattiene un riflesso macedone, quasi mitologico. Un’etimologia poetica vuole l’Epiro derivante dal greco ἐπυρός, “infuocato” - e quel rosso di capelli, curiosa eredità genetica nella linea dinastica epirota, diventa nei racconti popolari segno regale, fiammata coraggiosa, colore dei re.
Ecco allora il punto: dopo secoli, queste comunità arbëreshe nella loro diversità sono simboli coraggiosi di resilienza e coesistenza, di fedeltà plurale, di un dialogo continuo tra mondi che il Mediterraneo - diciamolo - non ha mai davvero separato.