di LENIN MONTESANTO Diviso, com’è, in generali senza esercito e clan tribali, il Pd e tutto il centrosinistra rossanese non potrà che riuscire nell’impresa più difficile nell’attuale congiuntura locale, regionale e nazionale: e cioè perdere nuovamente l’occasione di governare la Città. Non è una maledizione o una lettura astrale. È semplicemente la risultante logica ed anticipata della cronica incapacità della sinistra autoctona, asfissiata al suo interno dall’incrostata auto-referenzialità dei suoi tribuni, professori, avvocati e impiegati ad individuare e per tempo una personalità credibile ed alternativa, capace soltanto di raccogliere consensi e numeri già pronti per essere contati e trasformati in vittoria elettorale.
Oggi più che mai, con Oliverio alla Regione Calabria e con Renzi al Governo. Nulla da fare! Ad un anno ormai dall’importante scadenza amministrativa, da una parte, abbiamo già schierato ai nastri di partenza
un centrodestra imponente ma anch’esso diviso e che difficilmente interessi e ambizioni riusciranno a rimettere insieme:
il sempre più forte sindaco uscente Antoniotti (che non ha mai smentito la sua ricandidatura, da noi ufficializzata per primi lo scorso gennaio)
e Rapani suo unico duellante, impegnato ormai ad aprirsi a moderati e perfino a settori del centro sinistra pur di costruire le condizioni di un confronto interessante che potrebbe diventare utile in fase di ballottaggio. Dall’altra, nel centrosinistra, come da autorevole tradizione,
non si trova di meglio che continuare a banchettare in ordine sparso, sparpagliati in tante tribù (se ne contano almeno cinque), in attesa di essere riuniti nella solita
loya jirga finale di sapore afgano, magari con un nome di bandiera tirato fuori all’ultimo minuto e da portare al sicuro patibolo. È andata così, del resto, negli ultimi vent’anni. Anche
quando il centrosinistra ha vinto! Ed è così che Rossano, città d’arte e di tradizioni millenarie, della quale più tracce vi sono nella Storia europea, si è di fatto auto-affidata alla tutela, verrebbe da dire quasi psicologica e certamente simbolica, di Giuseppe Caputo e di tutto quanto egli ha comunque rappresentato in questi anni, piaccia o meno; inclusi i suoi successori attuali, diretti ed indiretti, nominati, ottriati o altrimenti riconosciuti. D’altronde, se a pochi mesi dal voto ed a quasi un quarto di secolo dalle storiche amministrative del 1993,
l’unico confronto politico del quale si può parlare oggi, con un centro sinistra acefalo e vittima di se stesso, è quello tra due ex assessori nati e cresciuti all’ombra del primo sindaco di destra eletto direttamente in Italia, vuol dire che siamo più o meno di fronte a ciò che Antonio Gramsci chiamava
egemonia culturale. O quanto meno una sua variante bizantina. Come l’onnipresente effigie di Stalin nelle manifestazioni del PCI del primo Dopoguerra, così oggi a Rossano, a destra come a sinistra,
l’evocazione di Caputo e del suo buon governo della città resta l’unica e costante unità di misura per tentare di disegnare l’identikit di ogni suo successore cronologico: sia esso di destra o di sinistra poco importa. Ecco gli effetti dell’egemonia culturale. Ecco perché il centro sinistra non trova e non troverà un proprio candidato alternativo. Ecco, quindi, perché la ricerca, avviata in queste settimane a sinistra, di eventuali nomi spendibili, tratti, guarda caso, dalle poche parentesi decisioniste del proprio passato amministrativo. Ma ecco, infine, ancora perché l’unica seria possibilità di alternativa al centro destra sarebbe, parafrasando una celebre pellicola di Nanni Moretti, non diciamo pensare e dire qualcosa di sinistra, ma anche soltanto
pensare e dire qualcosa di diverso e di nuovo da quanto è stato già visto, fatto ed anche apprezzato fino ad oggi. Gaston Bachelard, filosofo della scienza e della poesia francese, la chiamava
rottura epistemologica. Senza strappi e discontinuità non si va oltre, nella scienza, così come nella politica. Oggetti, simboli, uomini e dati di fatto vengono visti ed interpretati in modo del tutto diverso nel momento stesso in cui se ne parla in modo diverso. È in quel momento che ci si accorge, all’improvviso, delle mutate esigenze ed istanze. Ed è allora che prende forma la rottura col passato. Con quello proprio, quello degli altri e quello collettivo. Con idoli, simboli, tabù e condizionamenti. Resta, questa, forse,
l’unica terapia di gruppo auspicabile per i capi tribù del centrosinistra locale, costantemente impegnati a guardarsi allo specchio, armati (si fa per dire) di questa o quella amicizia o collegamento nei vertici regionali o nazionali di un Pd sempre più Balena Bianca.