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Presentato il libro "La Restanza" di Vito Teti, riflessioni sul senso dei luoghi

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CORIGLIANO-ROSSANO - Si è tenuta, venerdì 14 luglio, nel borgo marinaro di Schiavonea la presentazione del libro di Vito Teti "La Restanza", all'interno della rassegna letteraria “Letture del Borgo” nata dall’idea vincente di Maria Curatolo e dell’Associazione “Schiavonea e Sant’Angelo puliti”, presieduta da Mario Martilotti.

Partire e restare sono i due poli della Storia dell’Umanità. Al diritto di migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente. Queste le parole dell'autore, impresse sulla copertina del suo ultimo capolavoro “La Restanza”, dalle quali si è partiti per un intenso, vibrante ed appassionato dialogo con Nilo Domanico.

«Una serata - riporta la nota - che ha visto una partecipazione di pubblico rara a vedersi per la presentazione di un libro, per di più in un pomeriggio afoso e torrido».

«Molto spesso - ha spiegato Teti nel corso della presentazione - si va via per un'urgenza di esistere, un rito di passaggio per una palingenesi culturale ed identitaria. Si parte per poter acquisire conoscenze, sperimentare nuove esperienze e per poterle poi raccontare. Si resta per poter ascoltare, in un'attesa dinamica e rigeneratrice per poter poi, a propria volta, viaggiare con la mente. La Nostalgia dell'Altrove e del Qui, la nostalgia degli emigrati, dei partiti e dei rimasti svela che il desiderio che nutre il sentimento nostalgico non è il ritorno al luogo lasciato e perduto, ma la riappropriazione del sè inveratosi nel tempo passato. E allora la nostalgia diventa un sentimento bifronte da cui non è possibile guarire e non riguarda solo chi è partito, ma anche chi è rimasto ed è sopravvissuto all'esplosione di un mondo e dei suoi disattesi orizzonti ancestrali. La nostalgia del paese in realtà maschera la nostalgia del tempo che abbiamo vissuto in quel paese. Non si ritrova più la giovinezza, il tempo perduto, che è comune ai Partiti ed ai Rimasti. La nostalgia rappresenta dunque, nella visione kantiana, una condizione esistenziale ineliminabile e non una malattia dalla quale guarire».

Ciò che resta è, quindi, l'anima dei luoghi. «Dicono - prosegue Teti - che i paesi, i villaggi, i luoghi (come insiemi di reti, memorie, discendenze) siano destinati a morire. La storia delle civiltà, in effetti, mostra che quello che noi chiamiamo mondo abitato e conosciuto non sia altro che un sovrapporsi di cimiteri e di macerie. Sono morte anche le grandi e magnifiche città, crollati imperi e regni, scomparse civiltà millenarie. Tutto questo può essere vissuto con un senso di inevitabilità, come una necessità della vita che non può che morire, con tristezza, melanconia, senso di decadenza e della fine... Muoiono, scompaiono, chiudono i luoghi come centri di vita, di storia, di relazioni e, nel giro di due-tre relazioni, perisce anche la memoria di storie, volti, case, fatiche, fughe. Eppure questi luoghi non sono "fantasmi": sono luoghi che, come i defunti, interrogano, pongono domande, esigono risposte. Non è nemmeno da escludere che essi, in maniera diversa dal passato, possano acquistare una nuova vita e quindi di loro non possono essere smarrite nemmeno le più piccole pietre. Per quanta tristezza possano generare, i luoghi abbandonati vanno integrati e recuperati nella memoria che è vita. Solo l’elenco dei paesi abbandonati, la ricerca di nomi di paesi scomparsi, la mappa di ciò che è stato vivo e adesso è sottoterra, magari non sepolto, può essere una sorta di strategia per aprire un dialogo e per intercettare segni di vita che mandano, magari da un polveroso archivio o da un invisibile e nascosto strato sotterraneo. Ma un tale elenco non può servire per imbalsamare luoghi morti, per trasformarli in macerie mute, piuttosto per coglierne l’anima».

Ad accompagnare la riflessione sul tema le parole di Nilo Domanico: «In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare…” (Henry Laborit). È l’incipit del film Premio Oscar di Salvatores, Mediterraneo. È la traccia su cui si impernia l’intero film, la filosofia di vita di un gruppo di soldati italiani sperduti su un’arida ma affascinante isola greca, mentre in Europa infuria la terribile tragedia della Seconda Guerra Mondiale. È l’elogio della fuga. Dal mondo reale, dalle dittature feroci e sanguinarie, dalle contraddizioni della società».

«È la reazione di quei soldati, di quegli uomini, - spiega - alla oppressiva ed ineluttabile situazione di disagio esistenziale provocato da una guerra. È una fuga inconsapevole, non una scelta, ma che lo diventa quando si percepisce la inadeguatezza dei singoli rispetto agli eventi enormi e tragici del mondo. Ognuno di loro, dopo un inevitabile sbandamento iniziale, scopre però la sua vera dimensione, azzerando tutto il mondo dal quale proviene, ma ad esso intimamente legato e per il quale sogna un futuro diverso e migliore. Una vita che scorre lenta e serena, in un paradiso personale ed intimo, in cui si resta vivi e si continua però a sognare. Al termine della guerra però ritornano quasi tutti in Italia, la madre patria, il luogo di origine. Tranne uno che preferisce restare perché lì ha trovato l’amore, mentre nella sua terra non ha nessuno. Ma non tutto va per il verso giusto. Molti di loro soccomberanno infatti di fronte all’incedere prepotente dello stritolante meccanismo degli eventi, che non permette loro di cambiare lo stato delle cose nella società in cui sono ritornati e dove sono costretti a vivere. Ed alla fine ritornano nell’isola laddove hanno vissuto un sogno straordinario. Potrebbe sembrare una resa, ma nei fatti non lo è. Il messaggio recondito che ci arriva è quello della speranza, insieme ad una precisa indicazione di una via d’uscita».

«I singoli possono, se vogliono, crearsi un proprio empireo e fantastico guscio, in cui meditare, progettare, illudersi…dove poter continuare comunque a restare vivi, ma è nella realizzazione dell’io collettivo che esiste la possibilità di poter mutare il corso degli eventi. È solo insieme che esiste la possibilità di modificare il mondo, le sue storture, le sue profonde contraddizioni. È solo insieme che si possono infine realizzare delle utopie. Forse non è importante dove restare, inteso come luogo fisico, ma in che modo s'intende restare e se il proprio Mondo è capace, collettivamente, di rigenerarsi al battito dei propri sogni, delle proprie visioni, e se diventa impellente, irrefrenabile, il desiderio di combattere per difenderlo e migliorarlo. Forse si conosce il luogo della partenza, ma non il luogo della restanza? Magari perché la tua restanza può forse avvenire in molti luoghi diversi. Io so, intimamente, che uno dei luoghi della mia restanza è Sybaris, il Pollino e la Sila. Ma potrei vivere per sempre anche a Skye, sulle Highlands o a Durham perché sento di appartenere anche a quei luoghi magici ed incantati. Sono forse solo tracce di vite passate oppure è il desiderio di fuga verso luoghi dove rigenerarsi per poi tornare a combattere per le proprie radici, per la propria terra?»

«Forse - conclude Domanico - si ha bisogno di entrambe le cose. Delle proprie radici e dei propri sogni. Fuggire per restare in vita e continuare a sognare ed infine tornare e restare per realizzare i propri sogni. Non so se sono tornato per restare. Ciò che so è che non smetterò mai di sognare».

 

 

Rita Rizzuti
Autore: Rita Rizzuti

Nata nel 1994, laureata in Scienze Filosofiche, ho studiato Editoria e Marketing Digitale. Amo leggere e tutto ciò che riguarda la parola e il linguaggio. Le profonde questioni umane mi affascinano e mi tormentano. Difendo sempre le mie idee.