Nord-est Calabria, è iniziata la raccolta delle olive. Ma manca la manodopera
Dolce di Rossano, Carolea, Pennulara: inizia la stagione del vero oro verde del Mediterraneo. Ma il paradosso è che gli ulivi sono pieni e le braccia sono sempre meno

CORIGLIANO-ROSSANO – È tornato il profumo di olive nell’aria. Tra i filari che abbracciano la Piana di Sibari e risalgono fino alle colline del Pollino e della Sila greca, è cominciata in queste ore la raccolta. E si rinnova un rito antico quanto le nostre comunità, che non è solo produzione agricola, ma identità materiale e spirituale di un territorio che ancora parla la lingua della civiltà rurale.
Qui l'olivo non è monocultura ma atlante genetico: la Dolce di Rossano, carnosa e nobile; la Carolea, regina assoluta della resa; la Tondina di Cassano, piccola e aromatica; la Ottobratica, che anticipa i tempi e regala oli verdi e pungenti; antiche madri come la Pennulara di Saracena e la Sinopolese reintrodotta nelle aree interne; fino alle nuove “innesti culturali” come la Coratina, che qui trova una mineralità ionica irripetibile. È biodiversità viva, non museo.
Ed è un patrimonio riconosciuto: questa è la dorsale più densamente rappresentata d’Italia nell’Associazione Nazionale “Città dell’Olio”. Ne fanno parte Corigliano-Rossano, Cassano allo Ionio, Cerchiara, Civita, Saracena, Spezzano Albanese, Firmo, San Giorgio Albanese, San Demetrio, Altomonte, Terranova da Sibari, Morano, Plataci, Campana; altri comuni, tra cui Trebisacce e Castrovillari, sono in fase avanzata di adesione.
Ma oggi c’è una variabile che pesa più del clima e delle mosche: la manodopera non si trova. “Non si trova gente per raccogliere” è la frase ripetuta da frantoiani e aziende da Villapiana a Cropalati. È un’emergenza silenziosa: braccianti stagionali sempre meno, giovani completamente assenti, costo del lavoro in salita, burocrazia insostenibile. Senza forza lavoro, l’olio resta sull’albero. Ed è uno scenario che non riguarda più solo l’ortofrutta o la viticoltura, ma l’ulivo — cioè il cuore stesso del Mediterraneo.
E la posta è alta. Secondo l’ISMEA, la filiera olivicola calabrese vale oltre 500 milioni di euro l’anno, tra produzione ed economia derivata, con un potenziale di export ancora largamente inespresso.
E allora questa campagna che si apre oggi non è solo agricoltura: è una prova di maturità culturale e strategica.
Il nord-est calabrese saprà trattare l’olio non come un ricordo, ma come un asset economico centrale del proprio futuro?
La risposta, come sempre, non viene dall’albero. Ma dalla politica. E dal mercato.