Vinitaly 2025: Vini, amari e l'anima autentica di una Calabria Straordinaria
Un tuffo nell'evento in cui la nostra Regione ha saputo raccontarsi con forza e poesia. La Calabria del vino non è più una promessa: è una presenza

VERONA - Fra pochi giorni sarà Giovedì Santo. E come ogni anno, il pensiero va a quell’Ultima Cena che ha cambiato tutto. Gesù spezza il pane, versa il vino e istituisce l’Eucaristia: fonte e culmine della salvezza per milioni di cristiani. È un gesto potente, fondativo, che lega per sempre la fede al vino. Non stupisce, allora, che nei secoli il vino sia stato celebrato nelle chiese, nelle antiche abbazie e, più laicamente, in eventi come il Vinitaly.
Perché il vino — simbolo di sangue e festa, di sacrificio e convivialità — ha un’anima profonda. E anche quest’anno, al Vinitaly 2025, l’Italia ne ha celebrato tutta la ricchezza. La Calabria, in particolare, ha saputo raccontarsi con forza e poesia.
Sono entrato al Vinitaly 2025 con la curiosità serena di chi ha già qualche annata alle spalle, il taccuino in tasca, il palato pronto a lasciarsi sorprendere. Ne sono uscito con la testa piena di storie e una rinnovata fascinazione per quella regione che amo, troppo spesso sottovalutata: la Calabria. Vertigine è la parola giusta. Visori 3D e reperti archeologici da Sibari, masterclass su vitigni autoctoni e cocktail d’autore serviti tra ritmi incalzanti e dialetti che sanno di casa.
Lo stand della Regione Calabria e ARSAC, era uno spettacolo immersivo. Una micro-nazione effervescente, il 12, il numero degli apostoli, un padiglione pulsante. Dalle navette sentivi delle voci giovani: «Ma ci sei stato ieri sera al dj set calabrese? Devi andarci stasera, fidati». Era entusiasmo genuino — e del tutto comprensibile. E come darle torto? Con un bianco teso della Locride sul palato, o un rosso corposo del Reggino, o un amaro calabrese che accarezza la lingua come una poesia in dialetto, ballare tra i sorrisi era quasi inevitabile. Giovani professionisti si mescolano a buyer, sommelier e giornalisti del gusto. L’aria vibra di conversazioni in più lingue, e i calici raccontano una diversità autentica lasciando i visitatori sorpresi e sorridenti.
Si poteva vivere un viaggio immersivo in realtà virtuale tra i vigneti, le colline e le cantine storiche della regione. O partecipare a una delle tante conferenze o sessioni di mixology. Con eleganza, guidate da esperti del settore, intrecciano il rispetto per il passato con lo slancio del presente. Cosa si serviva? Vini che non imitano. Vini che parlano con voce propria. Dai rossi strutturati del territorio cirotano, fresco dal riconoscimento DOCG, al Terre di Cosenza DOP, ogni bottiglia racchiude una visione del terroir e della volontà del produttore.
Non sono semplicemente “vini calabresi”, sono vini delle Calabrie — al plurale — perché ogni altopiano, ogni collina, ogni costa esprime un’identità precisa, con eleganza, forza e, soprattutto, autenticità.
Immagino una statale 106, riqualificata in una versione mediterranea della leggendaria Route 66. Un itinerario enoturistico che collega con facilità le Terre di Cosenza e Cirò, unendo territori con vini eccellenti che raccontano storie di culture, sapori e una resilienza che affonda le radici nella tradizione e nell'amore per la terra.
Nell’entroterra calabrese, la creatività fiorisce in silenzio. Aziende familiari, vigne salvate dal tempo, giovani che per passione tornano alla terra.
Tra le novità più interessanti di quest’anno, spiccava la partecipazione degli amari, finalmente riconosciuti come parte integrante della narrazione enologica calabrese. A rappresentarli con eleganza e carattere l’azienda “Perla della Calabria”, che ha conquistato l’attenzione di molti con i suoi prodotti raffinati, sintesi perfetta tra botaniche del territorio bizantino e saperi antichi. Una bella sorpresa è stato l’incontro tra il mondo brassicolo e quello del vino, con la birra Calà, un prodotto calabrese che sorprende per come riesce a "dialogare" con i vitigni locali, creando un mix interessante e armonioso. Questo nuovo progetto, che ha visto coinvolti diversi viticoltori da angoli diversi della Calabria, sembra proprio incarnare l’idea che, come ha detto Fulvia Caligiuri, direttore generale dell'ARSAC, «l'intero è grande solo quando le singole parti si uniscono: solo lavorando insieme si riescono a fare cose davvero importanti».
Nella fiera c’è stato un momento alto, quasi sospeso: la presentazione di "Tralci e versi", volume curato da Maurizio Rodighiero, presidente dell’Accademia del Magliocco, che ha saputo compendiare il risvolto culturale e poetico del vino calabrese in un’opera che è insieme riflessione, racconto fotografico e omaggio a una civiltà del gusto che affonda le radici nella memoria ma guarda avanti con audacia.
Una delle esperienze più curiose — seppure meno entusiasmanti dal punto di vista organolettico — è stata quella proposta da un gruppo di appassionati della Biblioteca Internazionale La Vigna di Vicenza. Con oltre 62.000 volumi sono un punto di riferimento nazionale e internazionale per la ricostruzione storica degli studi sull’agricoltura e sul vino. Hanno recuperato, studiato e in fine microvinificato antichi vitigni veneti: uva gatta, brepona, gambugliara. Una sorta di Jurassic Park del vino, dove al posto di T-Rex e lupi preistorici ritrovi le uve scomparse da decenni. Emozionante, più che buono. Mi sorge spontanea la domanda: ha senso tentare la rinascita dei vitigni calabresi scomparsi? La risposta è probabilmente sì, ma con un approccio metodico. Recuperare questi vitigni non significa solo preservare una parte della nostra storia, ma anche distinguersi in un mondo sempre più omologato, rafforzando la biodiversità e costruendo una narrazione solida che unisca ricerca storica e visione contemporanea.
Il vitigno calabrese “castiglione cosentino” ha recentemente attirato l'attenzione, figurando nel supplemento del Corriere della Sera del 9 aprile. Per un lavoro serio in questo ambito, sono indispensabili approcci concreti, come progetti scientifici condivisi con le università, microvinificazioni sperimentali e la creazione di marchi regionali che valorizzino il patrimonio locale, come il progetto Vitigni Rari di Calabria.
Oltre all’encomiabile lavoro svolto a Cirò dalla cantina Librandi, un piccolo esempio virtuoso arriva anche dalle colline arbëreshë, dove Daniela Brunetti, discendente del secondo vescovo di Lungro, ha intrapreso il recupero di vitigni antichi e tradizionali, un tempo coltivati dalla sua famiglia. Il vescovo Stamati, fratello del nonno di Daniela, insieme alle sue sorelle, curava una vigna che produceva il vino utilizzato nelle messe della cattedrale di Lungro. Dieci anni fa, Daniela ha avviato il recupero di questi vitigni storici e, grazie al supporto dell’Università di Pisa, è stata effettuata una mappatura genetica da parte del dipartimento di ampelografia, confermando l'importanza di preservare questo patrimonio enologico unico.
Tornando ai vini eccellenti e alla Calabria che brilla al Vinitaly, uno dei vini scintillanti di quest'anno è il rosato di Statti, fresco vincitore della Gran Medaglia d’Oro al Concours Mondial de Bruxelles 2025. Vibrante e snello. Una gioia estiva, anche in aprile. Il vino calabrese al Vinitaly è gioia, narrazione, energia, identità. È un modo per parlare al mondo, non solo di sé, ma di tutta l’Italia. Da un angolo dello Stivale dove tutto sembra più intenso: la luce, il ritmo della musica, il vento, le parole — e, naturalmente, il vino.
Un risultato reso possibile anche grazie al lavoro costante dell’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo, che in questi anni ha saputo coniugare visione strategica, supporto concreto alle aziende e valorizzazione delle eccellenze. La Calabria del vino non è più una promessa: è una presenza.