di Ferruccio Cornicello Dopo essere partiti di buonora da Bari, via Lauria (Potenza) arriviamo sulla costa tirrenica a Maratea (Potenza) e, all’altezza di Scalea (Cosenza), imbocchiamo la
SS 504 Scalea-Mormanno per raggiungere
Papasidero; la strada è panoramica e tortuosa e si inerpica all’interno del
Parco Nazionale del Pollino, il parco naturale più grande d’Italia e fra i più estesi d’Europa, stretto fra il Mar Jonio e il Mar Tirreno. La sua superficie, di circa 200 mila ettari, si sviluppa su due regioni, Basilicata e Calabria, sulle tre provincie di Cosenza Matera e Potenza e su 56 comuni, di cui 24 in Basilicata e 32 in Calabria, fra cui appunto Papasidero.
L’attuale toponimo dell’abitato deriverebbe da un
Papas Isídoros, capo di una comunità basiliana del
Mercurion, uno dei maggiori luoghi del misticismo dell’Italia meridionale in cui fiorì a partire dal VI° secolo il monachesimo greco-orientale, in corrispondenza di un territorio che si estendeva lungo il confine occidentale delle attuali Calabria e Basilicata. A quota m. 210 s.l.m, con i suoi 854 abitanti attuali, il piccolo paese medievale di Papasidero si sviluppa a partire da una rocca longobarda ampliata a Castello nei secoli successivi, sotto le denominazioni Normanno-Sveva, Angioina e Aragonese.Dopo poco più di mezz’ora di viaggio, attraversando una natura aspra e varia dominata da macchia mediterranea, boschi di latifoglie ma anche da piccoli campi coltivati, con la strada che corre sotto le gibbose e acuminate cime del gruppo montuoso del Pollino, scorgiamo da lontano su uno sperone il piccolo abitato di
Papasidero, incastonato nella profonda valle del fiume Lao il cui alveo è tutelato dall’omonima Riserva Naturale Orientata, nel luogo che forse fu sede dell’antica subcolonia sibarita di
Scidro. Decidiamo che Papasidero e il suo territorio ve li racconteremo in una prossima puntata, per cui in questa occasione sostiamo giusto il tempo di scattare qualche foto. Lasciato l’abitato, proseguiamo ancora sulla SS 504 in direzione Mormanno e dopo circa 14 km troviamo sulla sinistra il cartello che indica il
“Parco Archeologico Grotta del Romito”. Imboccata l’agevole strada di campagna asfaltata di recente, che si sviluppa lungo un percorso spesso tortuoso e in discesa, dopo qualche km giungiamo alla meta in
contrada Nuppolara, nel tardo pomeriggio. Dopo aver visitato il
Museo didattico, accompagnati dalla guida
Teresa Pandolfi guadagniamo l’ingresso del cancello che ci introduce, per un sentiero in discesa, all’area del Romito collocata a quota m. 296 s.l.m. sulla sinistra idrografica della valle del fiume Lao, attraversando un bel tratto di bosco di latifoglie, attrezzato anche per le soste. L’ambiente del sito archeologico, che arriva a toccare in grotta oltre 8 m di spessore di deposito – la stratigrafia dal piano di calpestio attuale – si divide in due parti ben distinte. La Grotta vera e propria, una cavità naturale con uno sviluppo complessivo di 80 metri, composta da due sale in una delle quali si possono ammirare suggestive formazioni di stalgmiti e stalattiti; il
Riparo esterno, protetto dall’aggetto di un’imponente parete rocciosa, che si estende per una lunghezza di circa 40 metri. All’interno della grotta esiste anche una galleria ancora inesplorata.Ai piedi del
monte Ciagola o
Ciavola, parte di un ambiente naturalistico di grande fascino e pregio, con le caratteristiche geologicamente tipiche del paesaggio carsico come grotte ripari e inghiottitoi, è collocata la
Grotta del Romito. Sito di fondamentale importanza per la preistoria calabrese insieme alla Grotta della Madonna nella vicina località costiera di Praia a Mare, esso costituisce
uno dei più importanti giacimenti italiani del Paleolitico superiore (40.000-10.000 anni fa) e attesta frequentazioni più recenti risalenti al Neolitico europeo (7.000 – 4.000 anni fa). La Grotta viene scoperta nella primavera del 1961 dall’allora direttore del Museo Comunale di Castrovillari
Agostino Miglio su segnalazione di due papasideresi,
Gianni Grisolia e Rocco Oliva. Nell’estate del 1962 iniziano i primi scavi condotti dall’antropologo e paleontologo fiorentino
Paolo Graziosi. Quelli ancora in corso su basi di ricerche multidisciplinari – Sedimentologia, Palinologia, Malacologia, Archeozoologia e Paleontologia – sono condotti per conto della Soprintendenza ai Beni Archeologici della Calabria e grazie al sostanziale appoggio dell’Amministrazione comunale di Papasidero, da un’equipe guidata dal Prof.
Fabio Martini, ordinario di Paletnologia al Dipartimento di Scienze dell’Antichità all’Università degli Studi di Firenze nonché direttore del Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria “Paolo Graziosi”. Il sito contiene una delle più antiche e importanti testimonianze di arte rupestre preistorica in Italia, l’impressionante
graffito di una figura di toro primigenio o bos primigenius, varietà di bovide estinto da secoli noto anche come
uro, lungo circa
1,20 m, inciso su una grossa lastra calcarea di oltre 2 m di lunghezza collocata nella zona antistante l’ingresso della grotta. Recenti studi ne fanno risalire l’esecuzione al Paleolitico superiore ovvero a
19000 anni fa, rispetto ai precedenti che lo datavano tra gli 11000 e i 14000.Tra le zampe posteriori dell’uro a figura intera, è incisa in modo parziale un’altra figura di bovide, di proporzioni ben più ridotte e senza che questa lasci pensare ad una unica composizione.
Il Bos primigenius Paolo Graziosi definì il graffito
“la più maestosa e felice espressione del verismo mediterraneo”. L’attenzione ai dettagli anatomici e le proporzioni realiste rendono l’incisione dell’uro paragonabile, per lo stile della figurazione, al linguaggio espressivo dell’arte parietale rupestre franco-cantabrica, elementi che per importanza proiettano il sito archeologico del Romito nel più ampio contesto europeo. Di difficile interpretazione invece è la
fitta rete di segni rettilinei, curvilinei, sparsi e a gruppi, di diverse lunghezze e orientamenti non associati a figure zoomorfe che compaiono su un altro enorme masso, opposto a quello su cui sono raffigurati i bovidi. Importanti anche le
sepolture ritrovate nel sito, denominate con progressione numerica di ritrovamento (Romito 1, 2 etc.), per un totale di 7 con 9 individui. Alcune di esse si trovano in Grotta altre sotto il Riparo, non sono coeve e risalgono tutte al periodo del Paleotico superiore chiamato Epigravettiano finale. Romito 1-8 sono databili
tra gli 11.000 e 12.500 anni, mentre Romito 9 che è la più antica, risale a circa
17.000 anni fa.
Due inumazioni si presentano bisome, ossia riservate a due salme, altre sono a deposizione singola. Alcune hanno restituito zagaglie (punte) di osso decorate afferenti alla cosiddetta arte mobiliare della Grotta del Romito, altre resti di corna di toro. La ricorrenza di resti di uro o
Bos primigenius con gli inumati Romito 1, 2 e 3 rimanda a
funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull’universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche. La disposizione di 6 inumazioni su 9 in prossimità del graffito del bos primigenius ,
“assegnano a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione”, e conferisce all’ambiente
un indiscutibile legame con il sacro. Le molteplici evidenze archeologiche restituite dal sito offrono agli studiosi numerosi elementi utili alla ricostruzione storica delle attività delle
comunità di cacciatori-raccoglitori che abitarono il sito, le condizioni di vita dei gruppi umani preistorici, la loro interazione con l’ambiente e il paesaggio circostanti. Indicazioni sulla microfauna, la macrofauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dalle dinamiche climatiche avvenute dalla fine del Paleolitoco al Neolitico: la presenza, antecedente a 24.000 anni fa e con intermittenza, nella grotta del Romito, di un torrente che in seguito al suo prosciugamento e a interventi di bonifica ha consentito la frequentazione umana. Inoltre, dalla setacciatura del terreno di scavo nello strato C (11.000 anni anni fa) sono emersi, come per altri siti del Paleolitico superiore, dodici semi di
vitaceae che per le loro dimensioni sono riferibili alla
Vitis silvestris. Parte degli altri numerosi reperti risalenti sino alle prime frequentazioni della Grotta, attestate a oltre 23000 anni fa, unitamente al calco di sepoltura e alla
ricostruzione facciale di Romito 7 (individuo di sesso maschile morto all’età di 18-20 anni risalente a 12.200 anni fa) sono esposti nel piccolo Antiquarium annesso al complesso. Tra questi e tra gli altri un
Palco di Cervo palmato,
Cervus elaphus palmidactyloides, rinvenuto sepolto in una piccola fossa e riferibile a significati simbolico-rituali; gasteropodi bivalvi e scafopodi ovvero conchiglie marine della specie
Columbella rustica e
Cyclope neritea, lavorate e usate come ornamento che testimoniano altresì i contatti con il litorale tirrenico. Riferibile al periodo Neolitico è invece il
ritrovamento di ossidiana che lascia ipotizzare l’area del Romito centro di scambio e transito, tra l’area tirrenica e quella jonica, del vetro vulcanico proveniente dalle isole Eolie e utilizzato per produrre punte di frecce, raschiatoi e altro. Infine, nuovi importanti dati forniti dalle recenti ricerche condotte dal
Prof. Martini riferibili al 2012 testimoniano di elementi circa l’individuazione della
fase culturale definita Mesolitico (indicativamente 10.00 – 5.000 anni fa), epoca preistorica dell’età di mezzo dell’età della pietra sino ad oggi priva di informazioni per la Calabria.
Courtesy of Fame di Sud