Tra tematiche pirandelliane e un giallo dal fresh flavour, "Bugie" conquista la platea della prima serata
La naturalezza dei dodici giovani attori, le musiche, la fotografia e tante belle trovate artistiche promettono un grande successo al cortometraggio della Maros
CORIGLIANO-ROSSANO - Che ci fanno insieme Pinocchio, Epitteto, una meravigliosa signora che pronuncia proverbi calabresi, dodici giovani ragazzi che sembrano nati per il cinema, dei luoghi da incanto che uniscono antichi scorci artistici a larghi campi su orizzonti verdi e azzurri?
Bugie! Questa la risposta.
Si tratta della prima produzione cinematografica firmata Maros - la iper creativa casa artistica di Mariarosaria Bianco - ed è già un successo annunciato!
Sì, perché la bravura di quanti hanno messo su tutto il palinsesto di questo bellissimo progetto, guidati da Federico Moccia e dalla sua consolidata esperienza su più campi, compresa la nota capacità dello scrittore, sceneggiatore e regista di interagire con le giovani generazioni, è stata quella di usare ingredienti eterogenei, ma amalgamati così bene da fare risultare il tutto un felice impasto che promette di lievitare e diffondere profumo di alto gradimento.
Intanto, comunque vada, il primo grande successo si è già realizzato: aver lasciato il segno, artistico e non solo, nella vita dei dodici giovani attori che non solo a vederli recitare, ma anche ad osservarli interagire e sentire parlare - prima, durante e dopo il corto - è stato una vera gioia: naturali, affiatati, pieni, autoironici, sentimentali, consapevoli, modesti, intelligenti. E potrei continuare ancora, in questo usando quel poco di capacità di lettura e analisi su di loro che venticinque anni di quotidiano contatto con i ragazzi mi hanno consentito di acquisire.
Altro che gioventù indifferente e apatica!
Ma partiamo dall’inizio.
La cifra caratterizzante è quella della leggerezza, che non impedisce uno strascico di riflessione filosofico-umoristica; la scelta comunicativa di primo impatto è iconico-simbolica, ossia associa un’immagine ad un concetto, in questo caso si tratta del noto personaggio delle favole e di quella caratteristica che più lo rendeva monello e faceva dispiacere la fata Turchina: la sua incorreggibile mania di dire bugie.
Bugie, appunto. Ma cosa sono poi queste bugie? Chi sarà a dire bugie tra i tanti volti che si avvicendano davanti alla macchina da ripresa? Il giallo, dal fresh flavour, è servito.
Le note di una musica che mi ha conquistato dalla prima all’ultima scena, per quanto sono state ben indovinate e inserite a colorare i diversi ambienti e momenti di questa amabile produzione, ci suggerisce subito che è un vero e proprio enigma da risolvere questo, addentrandosi tra le tante storie di vita dei dodici personaggi portati in scena: storie di tutti i giorni, che Moccia ha saputo cucire addosso ai ragazzi, come si è evidenziato durante la riuscita serata di presentazione, ma che raccontano cronache di un’ordinaria… folle normalità.
Una ragazza incapace di accettare la chiusura di un ormai datata e forse idealizzata relazione, per la quale addossa le colpe, in modo prorompente, su quella che reputava la sua migliore amica, ma che, a ben guardare, può serenamente ancora considerarsi tale, se amicizia vuol dire fare aprire gli occhi a chi si vuol bene; un giovanotto di periferia che prende a quattro mani l’opportunità, offertagli dal caso, di spacciarsi per ricco e disinvolto viveur; e due migliori amici messi alla prova dall’attrazione verso una stessa ragazza, tra dinamiche che li vedranno soffrire e fare delle scelte, non sempre corrette.
Ma su tutte aleggia e tiene insieme, incornicia, l’intera imbastitura delle diverse storie interne, una bugia più grande… troppo grande, così grande da risultare assolutamente evidente, certamente insostenibile secondo i canoni della normalità e, pertanto, patologica, al confine con la follia. Ma sarà davvero così?
Quanto di pirandelliano si aggiri tra le pieghe di questo cortometraggio apparentemente disimpegnato e sentimentale non sfuggirà a chi abbia appena un po’ di confidenza con le tematiche del commediografo e romanziere di Girgenti: il tema dell’umorismo riflessivo, quello delle maschere, della difficile accettazione e consapevolezza di sé, del gioco esistenziale delle pluridentità stratificate…; tutte avvolte in quel relativismo gnoseologico secondo cui la verità, signori, non esiste e ogni cosa è così come vi pare.
Ma c’è un altro aspetto marcatamente pirandelliano, collegato ad una delle più avanzate stagioni produttive dell’autore dei Sei personaggi in cerca d’autore o del teatro dei miti, ed è la tecnica, filosoficamente significativa, del metateatro, o anche detto del teatro nel teatro, definizione che qui ci aiuta ancora di più. Due parole su questo e poi ad ognuno il gusto libero e legittimo di andare a scoprire il resto: gli attori reali rappresentano il ruolo di attori di una giovane compagnia che, diretti da una severa ma efficace regista, stanno facendo le prove per portare in scena un soggetto scritto proprio dall’attrice che sta raccontando la macrobugia, in una ben costruita sovrapposizione di reale e sceneggiato, biografico e recitato, che ogni tanto fa esplodere in un “ma questo non era scritto nel copione”! Già, perché quel copione, quel palco, questo tema del dire e dirsi delle autobugie, sveviani autoinganni e menzogne psicosociali, in realtà rappresentano la vita.
Intelligente, perciò, anche la scelta di proporre nella prima serata -aperta e chiusa elegantemente dall’arte coreutica sempre più matura delle allieve della scuola di Danza di Margherita Mingrone e Alice Celestino, e accompagnata dalle eleganti performance di Marco Greco e Valentina Bruno- un animato dibattito a più voci, vivacemente condotto dal giornalista Ugo Floro, che ha coinvolto i protagonisti e il pubblico, compreso un piccolo giovanissimo spettatore, nell’interrogarsi sulla consistenza e la legittimità delle bugie. Di quelle bugie “che hanno sempre bisogno di complici”, come cita in apertura l’aforisma di quel filosofo greco Epitteto, di matrice stoica, che, vissuto a Roma fra il I e il II sec. d.C., tanto si interrogò sulla felicità e ciò che risiede nel possibile controllo umano, ma che poi fu tra quelli che, pericoloso istigatore del pensiero libero, cadde vittima dell’espulsione dalla città al tempo di Domiziano.
Ma altri sono gli aforismi, tratti dal ricco repertorio proverbiale della tradizione calabrese, che costellano, come delle coordinate interpretative, le varie parti del corto e sono quelli pronunciati dalla fantastica ed espressiva Ida Beraldi e che hanno strappato veri e propri applausi a scena aperta per la originalità della trovata artistica e la simpatia di chi ha prestato voce e volto.
Come la musica, anche le immagini contribuiscono in misura significativa alla qualità e bellezza del film, con riprese davvero efficaci e di grandissima qualità su Rossano - il suo centro storico, i suoi luoghi interni, i suoi ampi spazi e paesaggi marini e alcune location scelte -, e una Calopezzati notturna che, nelle belle atmosfere dei suoi vicoli, accoglie alcuni dei momenti di maggiore intensità nello sviluppo della trama.
Che bell’occasione l’arte per fare vivere, crescere e valorizzare i nostri territori e la nostra comunità, i nostri ragazzi! Quando poi essa parla il linguaggio del cinema, di quella che il critico Canudo definì la “settima arte”, questi messaggi hanno la possibilità di volare davvero veloci e arrivare lontano, come, con sincera ammirazione e vivo apprezzamento, auguriamo a questa bellissima e plurimeritevole produzione della Maros della poliedrica, generosa e determinata Mariarosaria Bianco e dei suoi generosi e validissimi collaboratori e partner interni ed esterni.