di JOSEF PLATAROTA Commentare sempre, leggere mai. Altro non è che il nuovo mantra degli internauti che - navigando nelle galassie fatte di post, stati e articoli - si trovano a ripeterlo fedelmente. Ed ecco che chiunque commenta l’inverosimile, moralizza, chiacchiera, dissente e dice la sua per poi ritrovare nella biografia Facebook del o dei suddetti che, alla voce istruzione,
vi è la tanto agognata e complessa Università della Vita. È il vizio di forma del Social più utilizzato al mondo: dare la voce a tutti, pagati con moneta sonante che non è trasferibile e cumulabile ma è ugualmente spendibile:
la libertà di parola. Il nostro giornale ormai si è abituato a Metropolitane utopistiche diventate reali e pronte ad essere varate, a titoli che volevano dire fava ma si capiva rava, a commenti di dottoroni illustri che con un italiano claudicante colorano parole e usano faccine.
A 60 anni, non a 14. Di ciò che non si può parlare bisogna tacere o, per meglio dire, commentare. Ma se proprio si sente l’istinto impellente, proprio che le mani prudono manco si fosse affetti da un’incurabile orticaria, anche se la giornata è andata male tra le mille e più angherie e bisogna in un modo o nell’altro sfogarsi, almeno si abbia la decenza di leggere, codificare gli articoli, respirare il fatto.
Non possiamo stare troppo dietro all’ovvio: spiegare seduta stante la differenza tra un comunicato stampa e un articolo o tra una riflessione e un editoriale è tempo sprecato. Come potrebbe essere anche questo pezzo, queste lettere messe una dietro l’altra.
Il giornale è lo strumento più bello che possa esistere perché è carne leggibile di informazioni e libertà. Abusarne - perché dietro ad uno schermo non è possibile spegnere sul nascere qualsiasi arrogante pretesa di sapere senza conoscere nulla - sarebbe davvero un gran delitto.