A Co-Ro l'atteso convegno nazionale di studi su "I tumuli sacri di Thurii"
Domanico: «In pochi sanno di questa scoperta, della quale dovremmo avere maggiore consapevolezza e che nei prossimi mesi verrà raccontata con dovizia e cura, per riscrivere la storia della nostra terra»

CORIGLIANO-ROSSANO - «L’ingegnere Francesco Saverio Cavallari, Direttore delle Antichità in Sicilia, 156 anni fa solcava le nostre lande e compì quella che fu, probabilmente, la più grande scoperta archeologica nella nostra terra, insieme ai Bronzi di Riace:I Tumuli di Thurii. Là dove sono concentrate il maggior numero di laminette orfiche dell'intero Mar Mediterraneo, là dove sono state rinvenute decine e decine di tombe dell’epoca di Thurii». Lo ricorda Nilo Domanico nell'annunciare il convegno nazionale di studi sul tema che si terrà il 28 giugno 2025 alle ore 17.30 al Salice Resort alla presenza di tanti illustri studiosi.
«I Tumuli - spiega - sono un sistema di tumulazione come quello del Sepolcro di Patroclo, descritto nel 23 lib. dell’Illiade di Omero. Probabilmente in uno di questi tumuli era sepolto Lampone, condottiero e fondatore di Thurii, insieme a Xenocrito, inviato in Calabria da Pericle per ricostruire la devastata Sybaris e ricondurla all’antico splendore. In pochi sanno di questa scoperta, della quale dovremmo avere maggiore consapevolezza e che nei prossimi mesi verrà raccontata con dovizia e cura, per riscrivere la storia della nostra terra e ridare onore e gloria a quest’uomo ed alla sua straordinaria scoperta, dimenticata dagli uomini, che compì il primo vero passo verso la riscoperta di Sybaris».
Di seguito un resoconto dettagliato delle ore in cui avvenne la scoperta. Una sorta di “cronaca in diretta” di un nostro illustre concittadino, il professore Giuseppe Cadicamo, direttore del Ginnasio-Convitto di Corigliano, che descrive con straordinaria passione quell’epico evento.
Tutti questi pensieri mi frullavano per la testa, in tuono di aspra rampogna, e mi parea che tutte le falangi dei contribuenti d’Italia, sogghignando, dessero del matto a me, che la mattina del 23 di Marzo, mia avviavo alla volta del Bosco della Favella della Corte, per assistere all’apertura di una tomba Sibarita, scoverta dall’Ingegnere Cav. Saverio Cavallari, sotto un colle, che i riconoscenti cittadini ed i pietosi parenti v’innalzarono sopra, col gentile pensiero di salvar le reliquie del trapassato “dall’insultar dei nembi e dal profano piede dal vulgo.
Il giorno 19 marzo, sotto l’ultimo strato di finissima argilla, a deviare dal sottoposto monumento le acque pluviali filtrate dagli strati superiori, proprio in sull’imbrunire, agli ultimi colpi dei lavoratori, apparve una delle lastre di pietra lavorata, che coprivano il sotterraneo sepolcro. Un grido di viva gioia proruppe simultaneamente dal petto degli operai. Era la prima voce umana, ma in tutt’altra favella, che rimbombava, dopo tanti secoli, nelle viscere di quella tomba! Una lagrima ardente scorreva già per le gote del vecchio… Era la prima lagrima che, dopo il pianto dei desolati parenti, scendeva da ciglio umano a bagnare la fredda superficie di quel sepolcro obliato. Nei giorni successivi si continuarono con alacrità i lavori di allargamento dello scavo e la mattina del 23, destinato all’apertura del sarcofago, il Sindaco e gli Assessori del Comune di Corigliano Calabro, ed una grande moltitudine di cittadini accorsero ad ammirare l’antichissimo monumento. La Banda cittadina allietava gli spettatori colle più soavi armonie. Gli uni, ritti sull’orlo dello scavo, gli altri, seduti sui diversi scaglioni tagliati quasi a cerchio, a mo’ degli anfiteatri, attendevano con trepida ansietà il momento solenne, in cui, rimosse le lapidi, l’avido sguardo avrebbe potuto penetrare nel misterioso seno di quel sepolcro. Un misto di sentimenti arcani, come l’arcano di quell’istessa tomba, agitava tutti i cuori. A poco a poco tacquero i rumori e le voci. Le menti, come gli sguardi, stavano fisse ad un punto solo, alla leva dell’operaio, che sollevava la lapide sepolcrale. I minuti scorrevano con una lentezza, che parea di secolo. Che momento solenne! Dalla banda musicale uscivano le prime note dell’Inno, che ci ricorda le auree speranze del 1860: “Si scuopron le tombe – si levano i morti” e a me, che stavo come sotto l’influsso di un sogno misterioso, sembrava che quei concetti evocassero l’ombra del defunto a rizzarsi sull’avello, per respirare nuovamente l’aere del suo bel cielo natio, e mirare, stupito di meraviglia, tra prodigi dell’età moderna, le rapide locomotive correre sulle stridenti rotaie, attraverso la plaga della diletta Sibari, di cui indarno avrebbe cercato gli odorosi roseti e i fastosi monumenti nella deserta pianura! Bizzarri giuochi della fantasia! Quando tacque l’inno fragoroso, nel mio orecchio si ripercuoteva l’onda sonora e mi parea di udire una musica lontana, tutta spirante Achea dolcezza; ed ogni nota era una preghiera, un lamento di genitori desolati e di mesti amici, che accompagnavano in quell’ultima dimora le care reliquie del defunto. Le maschie figure dei montanari Calabresi, che io vedeva sollevare le lastre sepolcrali, e le ombre vaporose degli operai Sibariti, che ve le avevano collocate, si confondevano, innanzi alla mia esaltata immaginazione, come fantasmi di esseri sconosciuti, che, partiti da punti opposti, fendono rapidamente lo spazio interminato dei secoli, s’incontrano, si abbracciano e si confondono nel santo bacio dell’amore, che affratella le diverse generazioni di un’istessa razza. Alle 11 ¾ le lapidi vennero, con molta diligenza rimosse, e lo sguardo degli spettatori si fermò, avido ed immobile, sopra una superficie biancastra, come di funereo lenzuolo disteso in sulla bara. Di fatto era un lenzuolo, che i secoli aveano ridotto in cenere, senza alterarne la forma. Vi si vedevano ancora le rimboccature, le pieghe, i fili dell’ordito e del ripieno, in modo da far credere alla più esperta figlia di Aracne, che fosse di fresco uscito dal bucato. Sotto quel sottilissimo strato di cenere, vi erano gli avanzi della cremazione: i frammenti calcinati delle ossa zigomatiche e di due vertebre, un pezzo di cranio, alcuni denti, piccoli e ben conservati, alcuni chiodi ossidati, cenere e carboni di legna aromatiche, smorzati con acque odorose e con larghi sprazzi di vino vermiglio, come solevano praticare gli antichi, quando il rogo era combusto. Alle due estremità del sarcofago si rinvennero pochi frammenti di legno lavorato, con finissime intarsiature in oro, un bottone con immagine di donna, due fibbie, e, ciò che costituisce un vero tesoro per la scienza archeologica, una sottile lamina d’oro purissimo, della lunghezza di 25 millimetri, piegata in sei. Entro la terza piegatura vi era un’altra laminetta d’oro, della larghezza di circa 14 millimetri: tutte e due coperte d’iscrizioni in caratteri greci antichi. Un lembo del velo, che copriva l’istoria di Sibari, è ormai sollevato. Possiamo affermare, senza tema d’ingannarei, che i Sibariti seppellivano i loro defunti sotto montagnuole coniche, le quali, a guisa delle Piramidi Egizie, doveano sfidare la furia dei secoli; che presso loro era in uso la cremazione, e che la contrada scelta dal Cavallari è una vera Necropoli, come lo attestano gli altri poggi artificiali di forma conica.
Questa importante scoperta spargerà luminosi sprazzi di luce sulle incerte tradizioni della voluttuosa città Achea, quando i dotti nostri epigrafisti avranno decifrati i caratteri delle due laminette di oro. Noi avremo una bella pagina autentica della Storia di Sibari, perché la più grande delle due lamine contiene undici linee di fitta scrittura, la quale, vuoi per la forza sintetica della lingua greca, vuoi per la sobrietà dello stile epigrafico, dovrà contenere notizie storiche di grande valore.