A tu per tu con la disperazione di decine di padri di famiglia, è quasi un bilancio di “lacrime e sangue” quello contro cui abbiamo sbattuto il muso durante il nostro giro nella
centrale termoelettrica di S. Irene. Quaranta persone dell’
indotto, se non più, rischiano grosso: non poter portare a casa la pagnotta, a chi per oltre trent’anni ha calpestato in tuta blu gli asfalti di “
mamma Enel” che ora è quasi una terra di mezzo, può levare la dignità. Non poter sfamare le bocche dei propri figli può lasciare sul campo troppi orgogli schiacciati, oltre che affamati. Di sputare nel piatto in cui si è mangiato, poi, proprio non se ne parla. Ecco perché, al di là di tutto, è tanta la foga usata nell’esprimere il debito di vita contratto con quella madre di ferro e cemento. Un debito, quello con l’operatore elettrico, di cui la città di
Rossano sembra essersi accorta solo ora che, forse, è ormai troppo tardi. Ebbene sì, perché pare che qualcosa si sia smosso. “
Fasce tricolore” e “
colletti bianchi” cominciano a fare capolino dagli alti scranni per domandare allarmati “Cosa sta succedendo?”, quasi come se quelle due invadenti ciminiere non avessero smesso di fumare quasi 5 anni fa, ma qualche ora prima della loro discesa in un inferno di ceneri e vapori che, ormai da tempo, non si sollevano più. «Quando in tempi non sospetti – racconta Teresa, impiegata di
Corigliano – abbiamo chiesto a sindaci e amministratori di sedersi con Enel al tavolo delle trattative, ci è stata sbattuta la porta in faccia, ci sono state voltate le spalle. Ora che, però, la società magari pensa di investire le risorse che erano destinate a questo sito in altri stabilimenti, primi cittadini e burocrati cominciano a farsi vedere e sentire. Continuo a chiedermi perché ora e non prima? Perché adesso che l’Enel, a ragione, non vuole più discutere?». Una domanda che rimbalza fra tutte quelle bocche che rischiano di rimanere asciutte ma che, non per questo, si lasciano chiudere da una politica a cui devono così poco. Eppure, fra la rabbia e il rancore che rovesciano sui sordi padri-padroni, nelle mani di quegli onesti lavoratori si scorge il loro cuore di uomini, mariti e padri che chiedono di non essere lasciati soli. «Dopo quarant’anni di lavoro, non so che fine farò – ci dice amaro Antonio, operaio dell’indotto -. Spero che il nostro sindaco mantenga la promessa fatta di occuparsi di noi e trovi a me e ai miei colleghi dove lavorare». «Siamo condannati – fa eco Giuseppe con una tristezza che ci ferisce e si fa largo anche sui volti dei colleghi, consapevoli – Finora l’Enel ha dato da mangiare a noi e ai nostri figli. Se chiude moriremo di fame. A 52 anni non so che strada prendere, non so che vita farò». Giovanni si dice stanco di ripetere sempre le stesse cose. «Qui è mancata la politica, a tutti i livelli. Evidentemente i nostri amministratori vogliono che questo territorio non si sviluppi, che muoia e neanche troppo lentamente». Per
Giampiero Mercogliano, dipendente Enel da 36 anni, «viviamo in un paese di pseudoambientalisti in cui si dice no a tutto. L’occupazione è l’ultimo dei problemi. La conseguenza? I dipendenti Enel stanno vivendo un dramma e Rossano, che senza la centrale non si sarebbe mai sviluppata, ha perso tutto».
m.f. Per la versione sfogliabile del nostro settimanale: